- b) capitolo secondo
Vediamo ora il capitolo secondo, il Sadhana-Pada, che riguarda le pratiche necessarie al perfezionamento dello Yoga.
Patanjali comincia specificando la sua idea di Kriya-yoga (o
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Karma-yoga). Questo è uno Yoga pratico, uno Yoga dell’azione. Svolgendo un certo tipo di attività si può raggiungere la purificazione. Le azioni consigliate sono le austerità, lo studio delle scritture e gli atti compiuti come offerta per il Supremo Dio, Ishvara. Il Kriya-yoga è un tipo di Bhakti-yoga nel quale è presente un’enfasi maggiore per le pratiche ascetiche. La pratica di queste tecniche aiutano a ridurre la sensazione di sofferenza e di disagio presenti in questo mondo e aiutano a sviluppare il samadhi.
Ma quali sono gli elementi che causano infelicità? Secondo Patanjali sono l’ignoranza, l’egoismo, la voglia morbosa di piacere sensuale, la rabbia, l’attaccamento per la vita e la paura della morte. Vediamoli uno per uno.
Ignoranza significa credere che una cosa sia in una certa maniera piuttosto che nel modo giusto; scambiare una cosa per un’altra, insomma. Per esempio, credere che l’energia materiale sia permanente e quindi cercare di godere delle sue offerte è ignoranza; scambiare l’impuro con il puro, la vita triste con una gaia, ciò che abbiamo con ciò che siamo e anche credere di essere noi Dio.
L’ignoranza è il male fondamentale. E’ infatti a causa dell’influenza di questa avidya se le altre fonti di infelicità sono in grado di operare.
L’egoismo è il senso di essere. Quando ci identifichiamo con qualcosa che non siamo (cioè il mondo e gli oggetti che visualizziamo) quello è chiamato falso ego, o egoismo.
Altra fonte di sofferenza è la ricerca dei piaceri mondani, la quale dà origine a un attaccamento sempre più folle, vertiginoso con cui mai si riesce a raggiungere una soddisfazione piena e duratura.
L’avversione a ciò che non piace è l’altra facciata della medaglia: attaccamento e repulsione sembrano due cose diverse, opposte, ma hanno lo stesso valore in quanto interdipendenti. Questa produce ira e odio.
L’attaccamento alla vita e la paura della morte è conseguente a tutti gli altri vizi. Quando si vuole la soddisfazione in questo mondo, naturalmente si è avversi a morire fino a che non si trova l’oggetto della ricerca, cioè la felicità totale. Questa ha fatto vittime anche fra i saggi più celebri, come se tutti noi fossimo costretti dalla nostra
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stessa natura. Infatti l’anima è eterna, e nella sua identificazione con il corpo non riesce a capacitarsi che debba morire. L’ignorante non sa che in realtà la morte è solo un uscire da un vestito per indossarne un altro.
Queste sensazioni di infelicità, continua Patanjali, continuano a esistere in noi perché ci portiamo dietro, o meglio dentro, quelli che vengono chiamati samskara. Questi ultimi possono essere definiti “impronte qualitative”. Tali impressioni, stampate nel corpo sottile, vengono trascinate dall’anima individuale da corpo in corpo, da un numero imprecisabile di vite. In altre parole, tutto ciò che abbiamo visto, fatto e provato nelle vite precedenti ci hanno provocato delle impronte di carattere che ci portiamo sempre dietro, vita dopo vita, corpo dopo corpo, e ci inducono a comportarci, ad essere, a sentire in un certo modo talvolta anche contro la nostra stessa volontà.
Queste “qualità ereditarie” devono essere annullate, e ciò è possibile solo con la meditazione. Infatti da queste scaturiscono attaccamenti e giudizi errati che provocano ulteriori sofferenze. Da lì provengono altre azioni materiali, dalle quali scaturisce il karma. E finché avremo reazioni da scontare saremo costretti a rinascere nei vari corpi, condannati a vedere la perfezione allontanarsi.
Ci sono diversi tipi di reazioni: alcune causano una certa gioia, altre la tristezza. Ma il saggio intelligente riesce a percepire che si tratta solo di diversi generi di sofferenza e quindi le evita, le elimina prima ancora che generino i loro frutti.
Prima di tutto è importante stabilire chi noi siamo. “Colui che vede” (cioè noi, l’anima) non fa parte del mondo dell’oggetto in visione (la natura materiale). Noi siamo di qualità trascendentale. In un certo senso gli oggetti del mondo sono fatti per facilitare la liberazione del soggetto che li vive, che li sperimenta, ma non per un gioco di identificazione.
Patanjali poi avverte che l’aspirante saggio deve imparare a trascendere le influenze dei tre guna (sattva, rajas e tamas). In caso contrario non potrà vedere le cose come sono in realtà, ma le vivrà sempre attraverso il filtro di falsità della mente materiale. Lo yogi deve sempre ricordare che lo scopo della vita e di tutto ciò che esiste è la liberazione delle anime e il loro ricongiungimento con Dio.
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Questo fine è raggiungibile dal saggio, ma rimane un miraggio per coloro che accettano di rimanere avvolti nei tentacoli delle illusioni e delle falsità di Maya.
E’ dunque di importanza fondamentale saper collocare nel loro giusto ruolo l’osservante e l’oggetto osservato. Appena la persona spirituale giunge a disidentificarsi dal corpo, vede sorgere in sé la vera conoscenza, poi la visione dell’energia spirituale
ed infine la liberazione. Come tutte gli altri, anche questo esercizio discriminatorio fra il vero e il falso richiede costanza e determinazione.
Patanjali specifica che è necessario percorrere otto tappe per far sì che l’illuminazione spirituale diventi possibile, stadi che corrispondono anche a complesse discipline. Queste sono: yama, niyama, asana, pranayama, pratyahara, dharana, dhyana e samadhi.
Yama significa astensione, ed è lo stadio in cui lo yogi deve praticare virtù morali, che sono necessarie per la pulizia della mente e del corpo. Deve essere non-violento, veritiero, onesto, casto e distaccato. Man mano che procede nel cammino, queste regole non devono essere abbandonate, ma è obbligatorio che rimangano sempre punti fermi della vita e della coscienza del praticante.
Niyama è lo stadio successivo, in cui è necessario coltivare ulteriore purezza del cuore e del corpo. L’accontentarsi di qualsiasi cosa si abbia (dunque non desiderare altro), l’austerità, lo studio e il servizio devozionale d’amore a Dio aiutano a costruire una predisposizione mentale positiva che è importante ai fini della meditazione. I pensieri negativi (quali l’odio, l’invidia e altri sentimenti simili) conducono lontano dalla meta e devono essere sostituiti. Chi si perfeziona nello stadio di niyama acquista un profondo disgusto nei confronti del proprio corpo e di quello degli altri; così il desiderio sessuale scema fino quasi a scomparire.
Da questo stato sprigionano la gioia, il controllo sui sensi e poi la beatitudine; all’interno del nostro corpo fluisce una possente energia fisica. In questo stadio acquista fondamentale importanza la recitazione dei suoni trascendentali (mantra-japa) come forma di servizio devozionale al Signore. Attraverso l’intima sottomissione a Dio si può raggiungere ogni perfezione. Acquisita una profonda
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pulizia mentale e fisica, ora lo yogi può cominciare ad affrontare le tecniche meditative vere e proprie. Prima di tutto è importante sedersi in modo corretto, e questo è materia dello stadio successivo.
Asana significa imparare a sedersi in posizioni corporee stabili e comode. Imparate queste, le perturbazioni mentali e i fastidi fisici causati dalle dualità (come il caldo e il freddo, la fame e la sazietà, il buio e la luce) si attenuano e siamo pronti ad affrontare la meditazione.
Ora si deve imparare a controllare il respiro, e questa tappa (o stadio) è chiamata pranayama, diviso in quattro momenti. Seduti comodamente in asana di vario genere, si deve passare a controllare l’inspirazione e la espirazione. I tempi che passano fra l’uno e l’altro devono diventare sempre più prolungati e sottili, per cui il momento in cui si trattiene il respiro nei nostri polmoni è il terzo stadio del pranayama. Il quarto momento del pranayama è la contemplazione, durante la quale si avvertono sensazioni estatiche, qualunque cosa si osservi. A quel punto la luce della piena conoscenza si accende e la mente diventa ancor più idonea alla concentrazione totale.
Poi c’è pratyahara, la rinuncia della mente alle impressioni dei sensi che provengono dalle immagini sensoriali. Lo yogi deve rinunciare a provare piacere da qualsiasi cosa che provenga dall’esterno di sé, che sia di natura materiale. A quel punto il controllo sulle influenze del mondo dei sensi è quasi raggiunto.
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