Dopo alcuni giorni i Pandava arrivarono a Kampilya, la stupenda capitale del regno di Panchala.
Dopo aver trovato ospitalità nella casa di un vasaio, i cinque fratelli cominciarono a vagare per la città, che trovarono pervasa da un’atmosfera di festività quasi frenetica, con fiumane di persone che arrivavano e le strade erano continuamente percorse, tanto che durante il giorno e la notte non erano vuote un solo istante. Da tutta Bharata-varsha arrivava in continuazione gente di ogni tipo. Rallegrata da festoni e bandiere, con gli ampi viali continuamente cosparsi di acqua di rose, pulita e opulenta come non mai, Kampilya sembrava davvero una città celeste. I Pandava, irriconoscibili nel loro travestimento, ad un certo punto si accostarono a uno dei numerosi gruppetti di persone che confabulavano per la strada per ascoltare quello che dicevano.
“Pensate che il nostro Re,” sosteneva uno di loro, “ha fatto costruire un arco così pesante che in pochi riuscirebbero persino solo a sollevarlo, e così rigido che pochissimi potrebbero tenderlo. Che dire poi di porvi una freccia e farla partire! Inoltre nel suo anfiteatro appena costruito, è stata appesa a una volta una forma simile a un pesce con una ruota che le gira davanti in continuazione e che ha un solo orifizio dal quale si può individuare il bersaglio. E l’arciere dovrà colpire esattamente l’occhio del pesce. Ma non è tutto qui. Pensate che l’arciere non potrà neanche guardare direttamente in alto, ma dovrà mirare guardando il riflesso in una vasca di acqua mossa.”
“E’ una prova praticamente impossibile per chiunque,” diceva qualcuno.
“Forse Karna ce la potrebbe fare,” ribatteva qualche altro.
“Forse, ma potete essere sicuri che Draupadi non accetterebbe mai di sposare un uomo di casta inferiore. Piuttosto si getterebbe nelle fiamme.”
“Eh, Arjuna sicuramente ce l’avrebbe fatta, ma purtroppo è caduto vittima delle losche trame del malvagio figlio di Dhritarastra.”
“Il vile Duryodhana…”
“Sapete, in segreto il Re ha sempre desiderato dare sua figlia ad Arjuna, che ha ammirato quando tempo fa lo ha affrontato sul campo di battaglia…”
Nei giorni che seguirono i Pandava continuarono a visitare la stupenda e ricca capitale, e trascorrevano il tempo mendicando e studiando le scritture.
Poi giunse l’agognato giorno del torneo.
Arjuna si alzò di buon’ora e dopo aver svolto le sue pratiche spirituali mattutine, accompagnato da Bhima, uscì di casa e si diresse verso il gigantesco anfiteatro dove si sarebbe celebrato lo svayamvara. Già gremito di centinaia di migliaia di persone vocianti sugli spalti, questo costituiva una cornice davvero impressionante al torneo. I due fratelli si guardarono attorno e poterono constatare con meraviglia che erano affluiti a Kampilya quasi tutti i Re e i principi della terra. Nelle tribune riservate ai monarchi riconobbero i figli di Dhritarastra con a capo Duryodhana, poi Karna, Salya, e migliaia di altri.
Ma quando Arjuna volse lo sguardo in direzione del settore riservato ai Vrishni, notò una figura stupenda e ornata da ghirlande e gioielli di vario tipo; non lo aveva ancora incontrato, ma Drona gliene aveva parlato così tanto che non poté non riconoscere Krishna e suo fratello Balarama, accompagnati da amici e familiari. Guardò a lungo quel personaggio divino, colui che tutti dicevano fosse un’incarnazione della Suprema Personalità di Dio.
Bhima, invece, avendo scorto Duryodhana nel settore riservato ai Kurava, si sentì ribollire di un’ira insostenibile che solo a fatica riuscì a trattenere.
Poi si fece silenzio: fu annunciata la principessa Draupadi che nata dal fuoco sacrificale per volere dei Deva entrò, brillante come un sole. Tutti rimasero senza fiato, colpiti e in piena ammirazione per quella bellezza straordinaria; sulla terra mai si era vista una donna così incantevole e aggraziata. Camminando con portamento che rivelava grande modestia, Draupadi si sedette a fianco del padre. E, come tutti gli altri, in cuor suo Arjuna non desiderò altro che di averla come sposa.
Prima Drupada e poi il figlio Dhristadyumna fecero un breve discorso, spiegando le regole della gara; poi fu introdotto l’arco e la ruota che disturbava il passaggio delle frecce fu messa in moto.
A turno potenti Re, generali di eserciti e celebri guerrieri si susseguirono l’uno dopo l’altro nel tentativo di colpire il bersaglio: Duryodhana e i suoi cento fratelli, Sakuni, Asvatthama, Bhoja, Virata e i suoi figli, Bhagadatta, Salya, Somadatta, Jayadratha, Jarasandha e centinaia di altri tentarono di colpire il bersaglio, ma tutti fallirono. Furenti e umiliati, tornarono a sedere, guardando con rimpianto la meravigliosa principessa che aveva irrimediabilmente rubato i loro cuori.
Ad un certo punto ogni rumore cessò e uno strano silenzio, quasi di paura, invase gli spalti: alzatosi dal suo seggio d’oro, Karna, con la sua figura alta e imponente, si faceva avanti con incedere regale. Creduto morto Arjuna, tutti pensavano che egli fosse l’unico arciere al mondo capace di colpire il bersaglio.
Il figlio di Surya impugnò l’enorme arco, lo sollevò senza alcuno sforzo apparente e vi fissò una freccia: poi con la stessa facilità tirò la corda verso di sé. Drupada sentì un tuffo al cuore, aveva paura che Karna riuscisse nell’impresa; non voleva che sua figlia andasse in sposa a lui, in quanto, nel suo intimo, sperava che fossero fondate certe voci di strada che circolavano ultimamente, le quali volevano ancora vivi i figli di Pandu. E anche Draupadi avrebbe voluto sposare Arjuna, del quale aveva tanto sentito parlare come di un uomo favoloso e guerriero invincibile.
D’un tratto si udì echeggiare nell’anfiteatro la voce della principessa, forte e decisa.
“Tutti possono provare a colpire il bersaglio,” proclamò, “ma in quanto a sposare il vincitore voglio che si sappia che non accetterò mai un marito appartenente alla classe dei suta.”
Karna rimase esterrefatto. Ancora quella maledizione che lo perseguitava! Ancora lo chiamavano figlio di auriga! A quelle parole, dette con lo scopo di scoraggiare Karna, un forte mormorio si levò dalle gradinate e lui, umiliato e deconcentrato, scagliò la freccia con precipitazione, mancando il bersaglio solo per pochi millimetri. Allora, furibondo, gettò l’arco in terra e tornò a sedersi, con il viso sconvolto dalla rabbia. Nel vedere fallire l’arciere migliore del mondo, qualcuno dei monarchi presenti cominciò a innervosirsi.
“Drupada, non capiamo cosa tu abbia avuto in mente mettendoci di fronte a una prova impossibile. Hai visto? Persino Karna non ce l’ha fatta, anche se bisogna ammettere che le parole taglienti di tua figlia lo hanno disturbato. Sembra quasi che tu non voglia darla a nessuno. E se ciò è vero, perché ci hai fatto venire qui?”
“Forse tu volevi solo umiliarci e divertirti alle nostre spalle vedendoci fallire,” disse un altro con cipiglio furioso.
“Se così è, meriti sicuramente una punizione.”
“Pagherai la tua impudenza con la vita,” gridarono altri.
Il nervosismo cresceva sempre di più, tanto che il settore riservato ai Re si agitava come un mare in tempesta e si udivano proferire parole furibonde. La piega che la situazione aveva preso fece temere il peggio a Drupada. Qualcuno già metteva mano alle armi.
Ma d’un tratto una voce proveniente dal palco riservato ai Brahmana si levò così forte che tutti tacquero; era Arjuna, che chiedeva il permesso di parlare.
“Le leggi che osserviamo da millenni non vietano alle classi superiori di provare a cimentarsi anche in dimostrazioni che non sono pertinenti ai propri ruoli,” affermò lui. “Dunque chiedo il permesso di provare anch’io a colpire il bersaglio.”
Drupada osservò quello strano Brahmana: per appartenere a una classe per la quale lo studio delle scritture e la pratica delle austerità e delle penitenze sono le regole fondamentali, si presentava singolarmente robusto e il suo portamento era fiero e nobile: qualità queste che normalmente si riscontrano negli Kshatriya. Le parole pronunciate da Arjuna erano giuste: nessuna legge impediva ai Brahmana di cimentarsi in prove di destrezza militare.
“Sei libero di provare, se lo desideri,” rispose Maharaja Drupada.
Quando Arjuna scese gli scalini, gli Kshatriya presenti bisbigliavano tra loro, irritati: come poteva un debole Brahmana riuscire dove i guerrieri più possenti del mondo avevano fallito? Ma quando lo videro afferrare con sicurezza e senza nessuno sforzo l’arco e porvi una freccia, i rumori cessarono d’un colpo, tanto che sembrava che tutti stessero trattenendo il respiro. La freccia partì e, saettando nell’aria, andò a colpire in pieno il bersaglio. E non contento, con una velocità impressionante, il figlio di Indra spedì ben altre sette frecce nello stesso punto, dividendo a metà quella scagliata precedentemente.
Draupadi era stata vinta.
Dopo un momento di silenzio incredulo, dagli spalti si levarono clamori di stupore e indignazione. Guardandosi attorno, Bhima capì che la situazione si stava scaldando, così si preparò all’azione.
Draupadi, intanto, guardava quel giovane Brahmana tanto forte e abile e qualcosa le suggeriva che quello poteva essere Arjuna, e che i suoi sogni potevano essersi avverati. Si alzò, scese nell’arena e gli pose la ghirlanda al collo: era il segno che lo aveva accettato come marito.
A quel punto i mormorii si fecero altissimi: quel gesto aveva scatenato il nervosismo fin troppo represso di tutti. Salya, Somadatta, Jayadratha e mille altri, sentendosi feriti nel loro orgoglio di guerrieri, inveirono violentemente contro il Brahmana, e contro Drupada, che gli aveva permesso di tentare. A decine si alzarono dai seggi e, con le armi in pugno, si riversarono nell’arena come un fiume in piena, vogliosi di combattere. Arjuna e Bhima proteggevano il Re e, scontrandosi con i monarchi infuriati, ingaggiavano spettacolari duelli contro Duryodhana e Salya, e Karna e tutti gli altri.
Trascendentale alle passioni del mondo, libero dalla schiavitù del desiderio e della collera, con gli occhi tanto simili ai petali del fiore di loto, Krishna osservava la scena. Sembrava quasi divertito, e sorrideva: sapeva bene chi fossero quei Brahmana in realtà.
La situazione degenerò e gli Kshatriya presero a combattersi tra di loro, rispolverando vecchi rancori, rendendo generale la confusione.
Approfittando del momento in cui sembrava che la conquista di Draupadi fosse diventata una questione secondaria, i due Pandava, presa l’avvenente donna con loro, uscirono precipitosamente dall’arena e si diressero verso la casa dove erano ospiti.
Arrivati sulla soglia di casa, allegri per la vittoria ottenuta, chiamarono la madre e dissero in tono scherzoso:
“Madre, abbiamo portato un dono!”
“Qualsiasi cosa sia,” rispose Kunti dall’interno, “il vostro solenne impegno deve essere di dividerlo in cinque.”
A quei tempi la veridicità di parola era uno dei principi fondamentali e uno dei valori a cui si dava maggiore importanza; in quel modo si imparava a controllare la lingua. Perciò, sebbene Kunti non fosse a conoscenza del dono che i figli avevano portato, questi ultimi avrebbero dovuto dividere Draupadi tra loro.
I Pandava erano costernati: come potevano fare?
Ne discussero a lungo, e l’unica soluzione sembrava quella di sposarla tutti e cinque; ma era giusto? Rispondeva alle leggi della moralità e del Signore Supremo? Decisero di fare in quel modo; ma il dubbio rimaneva. Comunque quando Draupadi seppe che i suoi cinque mariti sarebbero stati i Pandava provò una gioia immensa. Il suo desiderio era stato esaudito.
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