6c) l’Advaita-vada di Shankara
Vediamo quali sono i capisaldi della teoria di Shankara.
Per lui esiste soltanto un’unica entità spirituale che si manifesta come plurale per effetto di Maya, un’energia che confonde e dà illusione profonda. Questa è la conclusione giusta a cui deve giungere chi studia seriamente le Upanisad, la Gita e il Vedanta-sutra. In special modo nel commento a quest’ultimo testo, l’Acarya mette in luce tutti quei passi delle scritture vediche che possano essere intesi in quel senso, attraverso giochi di prestigio interpretativi spesso davvero azzardati. Per quanto riguarda l’analisi delle scritture, in certi casi non ha vita difficile perché, tanto per fare un esempio, alcune Upanishad lasciano campo aperto a molte possibilità dal punto di vista decifrativo.
Ma una cosa è certa: che in tutti i testi antichi l’esistenza reale di una pluralità non è lasciata ad intendere, ma affermata in modo chiaro e ripetuto. Shankara era un brahmana ortodosso e quindi non avrebbe mai potuto negare una verità tanto chiaramente affermata nei Veda, che considerava scritti portatori della Verità Assoluta. Quindi, come continuare a sostenere la tesi della non-pluralità del creato? Utilizza una dottrina già usata in precedenza dai buddhisti mahayana e da Gaudapada, secondo la quale esiste una verità inferiore che procede fianco a fianco con quella assoluta, e che la prima ha valore solo in quanto conduce alla seconda.
Per Shankara dunque i Veda contengono e promuovono l’idea di due punti di vista paralleli e complementari: il primo che ammette
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l’esistenza di più enti (il Brahman, le jiva, il cosmo, il tempo e via dicendo), mentre il secondo, che è il Supremo (paramartha), non accetta nessun divenire né alcuna pluralità, ma soltanto l’unico immutabile, indivisibile Brahman. Il concetto di questa doppia verità può essere trovata nella Mundaka Upanishad.
Shankara non dubita dell’esistenza di un sé, senza il quale ogni forma di ricerca conoscitiva perderebbe di senso, ma questo sé è il Brahma, composto per propria natura interna di pura conoscenza. Brahma è il sakshin (il testimone), cioè il soggetto di tutto il conoscere. Ma proprio perché il sé è reale, non può essere un oggetto esterno a noi, per cui l’unica possibilità che abbiamo di comprenderlo è la meditazione interiore; alla fine di questa pratica noi diventiamo coscienti della nostra identità con l’uno-tutto che sta al di sopra di ogni pluralità e di ogni sofferenza. La meta del Vedanta, dunque, non può essere null’altro che rendere cosciente e duratura questa identificazione dell’io individuale con l’Ente Supremo.
I mezzi a disposizione sono lo studio, che è il presupposto teorico (ma allo stesso tempo pratico, in quanto la riflessione disciplina e purifica la mente), e la pratica di esercizi spirituali che facciano coincidere su un punto solo tutta l’attenzione. Quattro sono le condizioni fondamentali necessarie affinché la ricerca giunga
a buon fine. Bisogna: 1) saper distinguere un soggetto di natura eterna da ciò che non lo è, 2) non ambire a nessuna ricompensa per le austerità che si compiono, 3) praticare con costanza e determinazione la rinuncia e la meditazione, 4) desiderare solo la liberazione.
Abbiamo già detto che per Shankara il Vedanta non è una dottrina solo teorica, ma anche pratica, e che dà i mezzi per accedere alla salvezza. Ma questa può essere raggiunta solo per gradi, ed ecco spiegata la ragione dell’esistenza del ciclo di morti e rinascite (samsara). In altre parole, ci si reincarna proprio per ottenere una purificazione graduale.
La base imprescindibile della salvezza sono i Veda, le scritture che insegnano la conoscenza divina. Nelle loro pagine troviamo tutte le indicazioni necessarie al conseguimento della perfezione ultima.
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Per Shankara questi fanno parte del mondo della molteplicità, perché parlano agli uomini con il loro linguaggio e sgombrano dalle loro menti tutti i dubbi e le perplessità. Questa è la ragione per cui i testi e i saggi realizzati insegnano che la realtà sussiste di molteplicità: per condurli passo dopo passo a una comprensione superiore.
Per quanto riguarda l’Ishvara, Shankara non nega che l’idea di un Dio personale (Shiva, Vishnu, o Krishna) che dovrebbe essere venerato e soddisfatto sia espressa nei Veda, dove viene insegnato che questo Dio è un Essere diverso e superiore all’uomo. Ma questo Dio che tutti immaginano diverso da sé, in realtà è identico a ciascuna anima individuale, dato che tutti e due sono manifestazioni dell’Unico Spirito Assoluto. La differenza consiste nel fatto che mentre le jiva sono fornite di un apparato di elementi materiali (quali il corpo e via dicendo), l’Ishvara non è che eterna e illuminata onniscienza. La prigionia della cosiddetta anima individuale non è che una magia (Maya), un’illusione, come nel caso degli yogi che mostrano cose che in realtà non esistono. Tutto questo mondo non è altro che una grande illusione.
Questa Maya, afferma l’Acarya, è composta di ignoranza (avidya), in quanto solo chi sia vittima dell’ignoranza può pensare di esserne parte, ed è paragonabile a un grande sonno di cui, fino al momento del risveglio, sono prigioniere tutte le anime.
Ma quando si parla di un Ishvara e di anime individuali, afferma Shankara, bisogna badare a non commettere errori, in quanto questa terminologia è solo convenzionale. In realtà uno degli stadi fondamentali è superare la concezione di una contrapposizione tra Dio e le anime. La verità è che sono una cosa sola.
La concezione di un Essere supremo non è per Shankara qualcosa da evitare come la peste: anzi afferma che può essere utile, come gradino intermedio per giungere a conclusioni superiori. Si può adorare Krishna, o Vishnu, o Shiva, chiunque si voglia, ma alla fine anche l’idea di un Essere Superiore creatore deve essere superata. Non c’è nessuna creazione. Se ciò fosse, significherebbe che questa sarebbe una Sua trasformazione e il Supremo Uno-tutto, secondo Shankara, non potrebbe trasformarsi, altrimenti verrebbe ad esistere una dualità. E questa idea è fortemente avversata. In
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realtà non esiste nessuna trasformazione. Il reale consiste solo di un infinito, indiviso e indivisibile spirito.
Come si spiega, allora, la presenza visiva di un corpo e di altre manifestazioni di natura così diversa da quella spirituale? Tutto ciò, risponde Shankaracarya, sono solo delle upadhi, o attribuzioni arbitrarie che vengono assegnate allo spirito unico con cui esse non hanno nulla a che fare. Un esempio per illustrare tale principio: se alziamo gli occhi al cielo vediamo un immenso colore azzurro, ma in realtà il cielo non ha colore. Il colore blu è un upadhi del cielo. Ancora: se al buio scambiamo un palo per un uomo, questo
- un errore, e nasce dall’aver sovrapposto il concetto di uomo alla percezione del palo. Questa sovrapposizione concettuale si chiama upadhi. Noi attribuiamo allo spirito caratteristiche che in realtà non possiede, e questo stato di sogno è Maya. Per liberarsi bisogna distinguere Brahman da ogni attributo percepito.
Dunque, abbiamo detto che la liberazione si raggiunge aggiungendo alla conoscenza teorica la meditazione, con cui si giunge alla realizzazione che io sono Brahman.
La persona così libera resterà ancora nel corpo per un po’, finché il suo karma residuo non sarà esaurito. Ma non deve temere nulla, perché a quel livello nulla può più toccarlo. E al momento della morte, quando niente può provocarne la rinascita, raggiunge la videha-mukti (stadio di liberazione senza corpo), e allora il realizzato diventa quello che in verità è sempre stato: il Brahma eterno e indiviso.
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