- c) capitolo terzo
Vediamo ora il Capitolo Terzo dello Yoga-sutra, il Vibhuti-Pada, che riguarda i poteri mistici che è possibile sviluppare grazie alla pratica dello Yoga. In questo capitolo Patanjali descrive i numerosi poteri (vibhuti) che si possono acquisire.
Il capitolo comincia continuando la trattazione delle otto tappe (astanga). Ora giungiamo alla meditazione vera e propria.
Dharana, infatti, significa concentrazione e consiste, per l’appunto, nello sforzo di focalizzare la mente su un determinato oggetto.
Lo stadio successivo è dhyana, e insegna a mantenere ferma la
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concentrazione.
Si raggiunge samadhi quando la mente diventa un tutt’uno con l’oggetto su cui si medita, con “l’idea” spirituale che è alla base di ogni ente.
Questi ultimi tre sono momenti diversi di un’unica tappa, tanto che vengono chiamati samyama, in cui la concentrazione diviene esclusiva. Appena conquistiamo il controllo sulle nostre capacità di isolarci dai disturbi esterni, la sapienza comincia a farsi largo nel nostro intimo.
Se lo compariamo agli altri cinque che lo precedono (yama, niyama, asana, pranayama e pratyahara), il samyama è uno stadio in cui il praticante si è già rivolto all’interno di sé ma, paragonato al samadhi profondo, appare chiaro che non è ancora giunto alla perfezione.
Ora Patanjali previene un tipo di obiezione: non è forse vero che l’atto stesso, lo sforzo di eliminare le impressioni sottili generate dal karma, può causare ulteriori condizionamenti? Il saggio risponde che l’abitudine di concentrare la mente e di trascinarla in uno stato di pura consapevolezza, produce qualcosa di molto simile a un flusso continuo, privo di interruzioni qualitative, per cui dopo un po’ la mente si acquieta. Con la concentrazione assoluta su un oggetto la mente si acutizza e diviene ferma, finché ogni distinzione di forma, tempo e stato scompaiono. Essere condizionati significa cadere vittima delle trasformazioni che avvengono nella tridimensionalità del tempo (passato, presente e futuro).
Ma cosa si ottiene con questa concentrazione totale su un oggetto? Patanjali risponde:
Dal samyama sulle tre mutazioni temporali scaturisce la conoscenza del passato e del futuro. Concentrandosi su una parola, sul suo significato e sulla sua pronuncia è possibile comprendere tutti i linguaggi delle varie forme di vita (umane, animali e anche vegetali). Praticando il samyama sulle proprie eredità mentali sottili, lo yogi acquista conoscenza delle sue vite precedenti. Esercitandolo sui segni corporei di un’altra persona, può giungere a conoscerne la mente e la psiche. Se si concentra sulla propria forma corporea, sparisce la possibilità di percezione dall’esterno e lo yogi diviene
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invisibile. Esistono due tipi di karma: quello che genera frutti immediati e quello che invece li produce nel tempo. Meditando sul karma (o meglio su adrishta, i segni karmici visibili dall’esterno) si può predire l’ora della propria o dell’altrui morte. Meditando sulle virtù si può guadagnare una grande forza, persino quanto il più forte degli animali. Dirigendo i sensi sottile dentro di noi, si può ottenere la conoscenza dell’occulto. Se ci concentriamo saldamente sul sole possiamo conoscere il cosmo e il sistema solare, e se lo facciamo sulla Luna conosciamo tutto ciò che riguarda le galassie stellari. Praticando samyama sulla punta del naso, lo yogi acquista conoscenza e controllo della forza vitale, il prana, l’energia che permea l’intero universo. Con la meditazione sull’ombelico si giunge a poter controllare completamente gli organi corporei. Chi si sforza di riflettere sull’incavo della gola, ottiene libertà dalle schiavitù dei bisogni del corpo, come la fame e la sete. Esercitando il samyama sul nervo kurma (che è alla base della spina dorsale, vicino al plesso sacrale) è possibile guadagnare totale imperturbabilità e incrollabile sicurezza. Meditando sull’aureola che emana dal capo, si ottiene la visione e il contatto con le anime liberate. Attraverso l’illuminazione, che è uno stato di completa conoscenza, si ottiene il raggiungimento di ogni conoscenza potere e saggezza. Concentrando l’attenzione sul cuore, si raggiunge la conoscenza del pensiero altrui.
Ma, afferma Patanjali, tutti questi poteri non devono confondere lo yogi; lo scopo finale giusto, infatti, non è di diventare potenti in questo universo materiale, il quale è il reame dove maya esercita
il proprio dominio. Solo dalla meditazione sulla qualità spirituale dell’anima si può trarre la conoscenza perfetta del Purusha, il Dio Personale. Da questa realizzazione sorge la luce suprema da cui procede la percezione del mondo spirituale.
Certo, continua Patanjali, la manifestazione dei poteri è sintomo che la pratica è corretta, ma allo stesso tempo questi possono essere un impedimento alla trance estatica, in quanto lo yogi può attaccarsi al senso di potenza che ne deriva.
Poi il saggio va avanti a descrivere altre vibhuti.
Per uno yogi è possibile penetrare nel corpo di un altro. Conquistando il respiro chiamato udana, gli è possibile camminare
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sull’acqua, diventare insensibile al dolore e può anche abbandonare il proprio corpo nel momento che considera più opportuno. Una luce soffusa circonda il praticante nel momento in cui giunge a controllare il respiro chiamato samana. Praticando samyama sullo spazio (o etere, akasha), lo yogi sviluppa un udito perfetto e senza limite alcuno. Esercitando la ferrea concentrazione sulle relazioni sottili che intercorrono fra il proprio corpo e lo spazio etereo, lo yogi diventa leggero e può levitare fino ad attraversare il cielo. Si può raggiungere uno stato di conoscenza priva di veli quando ci si concentra sulle onde mentali extracorporee. Praticando samyama sugli elementi materiali e sulle loro funzioni si raggiunge il dominio sugli elementi che compongono il corpo; perciò egli può ridursi fino a diventare piccolo come un atomo, oppure ingigantirsi a piacimento, o fare del proprio corpo ciò che vuole. Glorificandolo, si raggiunge la bellezza e il vigore. Dal samyama sui sensi consegue il dominio degli stessi; dunque, tra le altre cose, è possibile spostarsi con la velocità del pensiero, trasformare un oggetto in un altro e governare i fenomeni della natura. Grande sapere e potere sono i frutti del samyama esercitato sulla distinzione fra Purusha (soggetto spirituale) e sattva (oggetto materiale). Ma, ammonisce ancora Patanjali, solo distaccandosi da questi poteri è possibile l’eliminazione del seme dell’interesse personale e raggiungere la liberazione.
Ma ci sono altre tentazioni contro le quali il saggio mette in guardia i suoi studenti. Quando il praticante diviene potente, i Deva vengono da lui e lo invitano a gioire delle favolose delizie dei loro pianeti. Chi cade in questa trappola, dopo un certo periodo di tempo deve lasciare quei paradisi e ricadere nel circolo vizioso della materialità grossolana. Per evitare questi pericoli si deve meditare sullo scorrere del tempo e ottenere così la consapevolezza della Verità Suprema come qualcosa che è al di là di ogni aspetto di questo mondo. Allora si realizza la differenza tra il reale e l’irreale. Quella conoscenza che dà la liberazione nasce dalla discriminazione (appunto tra il vero e il falso).
Studiando e praticando la dimensione della Purezza Assoluta (Ishvara, Krishna, la Suprema Personalità di Dio) è possibile
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raggiungere la liberazione finale.
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