I darshana: il Sankhya
1) introduzione
La parola Sankhya significa letteralmente “numero”: dunque sta ad indicare una dottrina basata sull’enumerazione e sull’analisi. Più ampiamente, il sistema Sankhya potrebbe essere definito come quel sistema che intende accostarsi alla Realtà Ultima mediante un’enumerazione esatta e onnicomprensiva dei suoi principi costitutivi (tattva). Perciò è una descrizione completa della creazione e dei suoi meccanismi.
La tradizione scritta e orale vuole che i rappresentanti autentici della dottrina filosofico-scientifica Sankhya siano i tre saggi figli di Brahma (Sanaka, Sanandana e Sanatana Kumara) e il saggio Kapila (il figlio di Kardama e Devahuti), il quale la insegnò ad Asuri, il quale a sua volta lo trasmise a Pancashikha. La settima autorità Sankhya sarebbe il saggio Vodhu, del quale non si sa praticamente nulla.
Tra questi, il più celebre è senz’altro Kapila. La tradizione insegna che una filosofia fondata sull’analisi sistematica fu impartita molti milioni di anni fa dal Rishi Kapila a sua madre Devahuti. A chi sostiene che il saggio e il suo insegnamento non possono essere tanto antichi, diciamo che l’unica fonte di informazioni a riguardo di ciò sono le Scritture stesse, senza le quali non avremmo neanche saputo dell’esistenza di questi personaggi e delle loro filosofie. Sono le stesse Scritture che ci danno un’idea del periodo della loro nascita. Così i Purana affermano che Kapila apparve addirittura durante lo Svayambhuva Manvantara.
Del Sankhya inteso come un sistema filosofico preciso si trovano chiari riferimenti anche nei Veda più vetusti, come il Rig Veda. Dunque non possiamo certo far risalire gli albori del Sankhya a un’epoca seguente la nascita del Cristo.
Molti Purana (come il Brahmanda Purana, il Vayu Purana e il Bhagavata Purana) e grandi autorità in materia parlano di Kapila
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come di un Vishnu avatara, un’incarnazione divina. Non solo, ma troviamo l’intera storia della sua nascita, della sua vita e dei suoi insegnamenti nel Terzo Canto dello Shrimad-Bhagavatam, anch’esso posto per iscritto ben cinquemila anni orsono. Nello stesso Purana troviamo anche altre storie che riguardano Kapila. Inoltre, la figura del saggio appare sovente anche nel Maha-bharata.
Sembra che il Rishi abbia scritto due libri, il Sankhya-pravacana e il Tattvasamasa, ma di essi non c’è menzione nelle Scritture antiche; tutto ciò viene affermato solo nelle tradizioni che dicono di appartenere alla sua dinastia spirituale.
Nipote di Brahma e figlio di Kardama Muni e di Devahuti, Kapila parla per la prima volta la filosofia immortale del Sankhya a sua madre; un sistema, come già detto, che si basa sull’analisi metodica della natura materiale, in secondo luogo dell’energia spirituale e di un susseguente confronto delle qualità opposte delle due realtà.
La confusione sul Sankhya nacque molto tempo dopo, quando venne progettato un sistema di “tipo analitico” simile al precedente e che fu chiamato allo stesso modo, Sankhya per l’appunto. Gli autori furono Ishvarakrishna e Kapila (ovviamente un omonimo dell’antico saggio).
La differenze fra le due filosofie è nettissima: la prima è di natura teistica, accettata da tutti gli studiosi Vaishnava, mentre l’altra è, come vedremo, fondamentalmente ateistica e materialistica.
Storicamente la contrapposizione dei due sistemi ha sempre caratterizzato le vicende di questo sistema. I punti di convergenza e di divergenza diventeranno chiari nel corso della nostra esposizione.
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