Argomento Diciottesimo – Ulteriore confronto fra ciò che è Supremo e ciò che non lo è
Iniziamo a trattare la sezione cinquantunesima. Assumendo il ruolo del discepolo, Sri Jiva si pone il problema di come sia possibile conoscere la natura dell’oggetto supremo di adorazione. La risposta può essere trovata nel celebre verso 1.2.11 dello Srimad-Bhagavatam, che è stato già trattato in precedenza. Ve lo riproponiamo:
vadanti tat tattva-vidas tattvam yaj jnanam advayam
brahmeti paramatmeti bhagavan iti sabdyate
“Coloro che hanno un sapere perfetto e che conoscono la Verità Assoluta chiamano questa sostanza nonduale Brahman, Paramatma e Bhagavan. Brahman è il Suo aspetto impersonale o energetico, Paramatma il Suo aspetto localizzato in questo mondo e Bhagavan è l’aspetto Supremo e Ultimo.”
In questo verso la parola advayam ha un ruolo importante, in quanto indica la nondualità del Signore. Srila Prabhupada dice:
“La Verità assoluta è contemporaneamente soggetto e oggetto e non presenta differenze qualitative. Quindi Brahman, Paramatma e Bhagavan sono qualitativamente la stessa cosa…” Dunque non-duale sta per assoluto e onnipervadente.
Jiva Gosvami aggiunge:
La parola jnanam si riferisce a colui che ha come propria natura essenziale la pura coscienza. Questa è definita advayam perché non potrebbero esistere altri tattva (supremi) la cui esistenza fosse relativa, siano questi (ipotetici tattva) omogenei che non omogenei; (questa è definita advayam) perché rappresenta il solo supporto per tutte le Sue sakti; (questa è definita advayam) perché senza questa coscienza come ultimo substrato le sakti non potrebbero neanche esistere.
Dunque l’espressione jnanam advayam è spiegata. Egli è la Realtà Ultima, l’Unica e Indissolubile che, pur manifestandosi in innumerevoli aspetti, rimane sempre la Sola e Assoluta.
Gosvami Maharaja conclude la sezione con queste parole:
… giacché la parola tattva indica il fine più alto della vita, questa coscienza deve essere composta di felicità suprema ed eterna.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: “La coscienza (cioè l’anima individuale) sembra invece essere assolutamente temporanea, in quanto in un momento assume la forma di un oggetto blu e l’istante dopo quella di un oggetto giallo. Come può allora la coscienza essere definita non duale ed eterna, come lo Srimad-Bhagavatam suggerisce?”
A questo dubbio Suta Gosvami replica: “Il Bhagavata ha per suo soggetto di studio la Realtà non duale, caratterizzata dalla unicità di atma e Brahman. Questo è l’essenza di tutte le Upanisad, il cui solo scopo è di condurre all’ottenimento di kaivalya.”
L’identità tra Brahman e atma è un dato di fatto. Lo affermano moltissimi versi delle Upanisad. Ne menzioneremo qualcuno: tat tvam asi, “Tu sei Quello” (Chhandogya Upanisad 6.8.7.); satyam jnanam anantam brahma, “Brahman è Verità, Conoscenza e Infinità” (Taittiriya Upanisad 2.1.1); yena-srutam srutam bhavati, “Imparando questo, tutto ciò che non è mai stato ascoltato diventa udito” (Chhandogya Upanisad 6.1.3); sad eva saumedyam agra asti, “All’inizio… solo questo Essere esisteva” (Chhandogya Upanisad 6.2.1); e altri.
Inoltre, che l’anima individuale sia simile al Brahman, è stato visto anche da Vyasa durante il samadhi. Ma Sri Jiva afferma che la jiva è una col Brahman nel senso che ne rappresenta una porzione.
Questo fatto risulterà chiarissimo a chiunque studi i Veda con attenzione e senza pregiudizi.
L’autore del testo in esame continua:
Supponiamo che qualcuno sia stato chiuso in una stanza buia dalla sua nascita e che il suo desiderio sia di conoscere la natura del sole: qualcuno potrebbe indicargli un piccolo raggio di sole che è riuscito a far penetrare nella stanza attraverso un piccolo foro e dirgli: “Questo è quello (il sole). Cerca di realizzarlo come una grande sfera di luce, in natura identica a questo raggio di sole, che altro non è che una sua particella.”
Dunque l’aspetto impersonale di Dio (Brahman) è una verità parziale, che si mostra a chi non è qualificato ad avvicinarsi alla Sua Suprema Personalità (bhagavan). Ciò avviene perché avvicinarsi alla personalità divina richiede amore, sentimento che non è ricchezza di molti.
Jiva Gosvami anticipa che nel Paramatma Sandarbha dimostrerà che la jiva è solo una porzione di Brahman, mentre nel Priti-sandarbha spiegherà il significato dela parola kaivalya, dimostrando che significa purezza, e che purezza è sinonimo di bhakti immacolata.
Se capiamo che la natura intima della jiva è fatta di coscienza ed eternità , potremo capire anche l’Essere a cui ci si riferisce col termine tat, il quale è fatto della stessa essenza. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto l’anima è “creata a Sua immagine e simiglianza”.
Riferendosi a questo principio, il saggio Pippalayana dice a Maharaja Nimi:
“Ci sono due tipi di anime (l’Anima Suprema e l’anima subordinata. Ambedue sono chiamate Atma, ma la Suprema è onnipotente perché è grande, mentre l’altra è insignificante perché è piccola. Inevitabilmente esiste un’influenza del potere superiore su quello inferiore (l’anima), ma rimane il fatto che la jiva non è mai distrutta né nata; essa non cresce mai né invecchioa e agisce da testimone durante gli avvenimenti della vita appena menzionati (la crescita e la vecchiaia). Così come il prana sembra essere molteplice a causa della percezione dei sensi, l’atma (sempre eterna, invariabile e composta di pura coscienza) viene concepita (dagli osservatori) come molteplice.”
Dunque la teoria detta viparinama, secondo cui l’anima si modifica, è contestata dal saggio Pippalayana. Sebbene testimoni i numerosi cambiamenti a cui il corpo si sottopone, rimane immutabile. Il corpo cambia, l’anima non cambia mai.
Ma l’altra Atma, quella priva di condizionamenti, detta upalabdhimatram (cioè composta di pura e suprema coscienza), è ovunque, in ogni corpo e in ogni momento dell’esistenza. Le differenze vengono concepite da noi, con i nostri sensi relativi e imperfetti, ma la coscienza non si modifica mai. E’ la mente che si trasforma, spiega Jiva Gosvami, e queste modifiche appaiono e scompaiono, ma non la coscienza. Questo risponde all’obiezione in oggetto.
Viene poi ribadita la differenza tra l’anima e il corpo, concetto che è alla base di ogni inquisizione filosofica che abbia l’intenzione di conoscere il trascendente. Senza capire questa, procedere risulterà arduo.
Il dehinah (ciò che è dentro il corpo) è libero da originazioni, mentre il deha (il corpo) ha un momento di creazione e subito dopo subisce la distruzione. Troviamo anche un elemento di ragionamento aggiuntivo: colui che osserva (l’anima) deve necessariamente essere distinto da ciò che è osservato (il corpo e gli avvenimenti che lo riguardano).
Baladeva Vidyabhusana dice poi che il corpo subisce sei tipi di trasformazioni.
Nel prosieguo del verso del Bhagavatam (11.3.39), Pippalayana Muni va avanti nel suo ragionamento e dice che il prana, l’aria vitale che permette di vivere, in ogni suo stato di esistenza fa sì che l’atma mantenga intatta la sua coscienza. Questo accade anche durante il sonno o quando è costretta a trasmigrare attraverso le quattro specie di corpi. Dunque anche il prana è immutabile.
Perciò anche l’atma rimane sempre la stessa. Quando noi “siamo desti” nel mondo materiale (cioè interessati alle fantasmagorie del mondo ingannevole) essa appare mutevole, ma è solo un’apparenza. Quando invece rientra all’interno della sua coscienza trascendentale, diviene ovvio che essa è kutastha, immutabile. Lo era in ogni caso, ma nello stato di realizzazione l’atma si situa nella proprio coscienza originale e reale, per cui la sua immutabilità diviene evidente.
Ma come avviene la liberazione dell’anima? Quando questa si libera dalle sovrastrutture superflue e irreali del corpo sottile: a quel punto diviene kutastha, libera dalle upadhi, cause prime della prigionia.
Un’obiezione può sorgere: quando tutto, compreso l’io, si immerge nell’Assoluto, rimane solo il vuoto. Quindi, come si può parlare di atman immutabile?
La matrice buddhista di tale obiezione è evidente. Jiva Gosvami risponde nella sezione cinquantaquattro:
“Quando ci realizziamo, noi ricordiamo l’atma… manteniamo il senso dell’io.
Quando siamo addormentati alla coscienza trascendentale, noi non ricordiamo la nostra identità spirituale e crediamo di essere parte della materia. Quando finalmente diveniamo realizzati nel sè, non perdiamo affatto il senso di essere qualcosa. In altre parole, il perfezionamento spirituale non consiste nell’entrata in uno stato di vuoto, in un nirvana (cioè in una estinzione totale), bensì nel perfetto ricordo di chi in realtà siamo sempre stati. Perciò l’individualità è eterna e non si può perdere mai. Può solo essere dimenticata per un certo periodo di tempo. La teoria buddhista, per gli Acarya Vaisnava, è dunque un’inaccettabile eresia.
Continua Jiva Gosvami:
l’atma, che è pura consapevolezza, possiede il potere di conoscere, (capacità) che si basa su proprio sè, come gli oggetti luminosi… possiedono il potere di illuminare.
In altre parole, la capacità di conoscere (cit-sakti) è intrinseca nella natura dell’anima spirituale, proprio come il potere di illuminare è intrinseco nel sole. Gosvami Maharaja cita un verso della Brhad-aranyaka Upanisad (4.3.23), che dice:
“E quando (nel sonno profondo) egli non vede, tuttavia vede, sebbene non veda oggetti sensibili alla vista: la ragione è che non ci può essere separazione del senso visivo dal soggetto capace di vedere…”
Baladeva Vidyabhusana spiega le implicazioni di questo verso: “Si dice che l’agente cosciente di sè, quando è nello stato di sonno profondo, non veda; ma ciò avviene perché nello stato di sonno profondo non ci sono oggetti sensibili e non significa che il soggetto capace di vedere sia assente.” In altre parole, che l’anima addormentata non veda gli oggetti trascendentali non vuol dire che questi non esistano o che il soggetto sia assente, ma che nella coscienza materiale gli oggetti spirituali non possono essere percepiti.
Dunque, sulle basi di quanto stabilito, è possibile concludere che l’atma è distinta dal corpo, in quanto quest’ultimo è evanescente, oggettivo, elemento testimoniato e luogo di somma sofferenza. Questa è la conclusione di Sri Baladeva, che commenta gli insegnamenti di Sri Jiva con la massima fedeltà e chiarezza.
Nella conclusione della sezione cinquantacinque troviamo riassunti i quattro argomenti che sono stati usati per provare la differenza esistente fra il corpo e l’anima:
a) il corpo è costruito e distrutto, mentre l’anima no,
b) il corpo è l’oggetto della visione, mentre l’anima è il soggetto che prende visione,
c) le loro qualità manifestate differiscono in modo del tutto evidente,
d) la sofferenza dell’anima condizionata è in netto contrasto con la gioia dell’anima liberata.
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