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Jiva-sakti (l’anima spirituale)
Introduzione al tema
Scegliamo di iniziare partendo dal concetto della jiva perché ci sembra corretto stabilire, prima di tutto, l’identità dell’ascoltatore, la nostra insomma.
Non siamo i primi a operare una scelta del genere, abbiamo precedenti illustri: nella Bhagavad-gita è Krishna stesso a seguire questa logica. Infatti, dopo un primo capitolo introduttivo nel quale viene presentata la situazione storica, inizia subito a spiegare i concetti riguardanti l’identità individuale dell’essere.
Anche Sukadeva Gosvami nel suo discorso a Vyasa esordisce alla stessa maniera.
Questa essenza, la jiva, nei Veda viene chiamata con appellativi diversi, quali atma, jivatma, anima infinitesimale, anu-atma, anima spirituale, scintilla d’energia spirituale, entità che è parte integrante di Dio.
L’identità sbagliata
D: Allora cominciamo con la domanda più elementare: chi siamo noi?
R: Questa è la domanda più corretta da porsi e da porre quando si inizia una inquisitoria diretta alla comprensione della verità. Ed è il primo argomento che dobbiamo affrontare, come condizione prima per comprendere bene tutto il resto.
Infatti siamo noi che vogliamo sapere, noi che cerchiamo, noi che conduciamo l’indagine filosofica, per cui prima di tutto si deve capire bene chi è questo “io” che si sta muovendo, che sta cercando di uscire dai legami dell’ignoranza.
D: Potete specificare meglio perché è tanto importante?
R: Facciamo un esempio. Osserviamo gli animali, un uccello: esso crede di essere ciò che è, un uccello appunto, e si comporta come tale. Fin dai primi momenti della giornata si pone domande da uccello, si affaccenderà per risolvere le necessità proprie della sua specie: il mangiare, il dormire, la difesa per sé e per la famiglia. Identificandosi in quella forma vivente, tenta di risolvere le problematiche e le questioni che le sono connesse. Ora mettiamo che uno di noi impazzisca e creda di essere un uccello. Credendo di poter volare, spalancherà la finestra e tenterà il volo; ma il risultato non può che essere nefasto. La ragione? E’ ovvia, non era un uccello e non poteva volare.
Nella nostra vita, se non vogliamo correre il rischio di fare cose inutili o addirittura dannose, la prima cosa che dobbiamo fare è chiederci: “chi sono io?”. Quanti di noi si sono mai posti questa domanda?
Ma prima di capire chi siamo, è meglio dare un’occhiata a cosa non siamo.
Noi, membri fin troppo attivi della società materialistica moderna, stiamo commettendo un gravissimo errore, che è alla base di tutte le nostre disgrazie: ci stiamo identificando con qualcosa che non siamo, qualcosa a noi estraneo, ed è questa la ragione per cui siamo sempre frustrati e insoddisfatti. Siamo dei pazzi che abbiamo creduto di essere uccelli.
Al presente, cosa crediamo di essere? Un corpo, una mente, un’intelligenza. E’ un errore comune. La storia dell’umanità è piena di esempi anche importanti. Riprendiamo alcuni dei versi che abbiamo già menzionato nella prima parte del nostro lavoro.
(Narada a Vyasa:) “Sei soddisfatto di aver creduto che il corpo (sarira) e la mente (manas) siano gli oggetti (finali) della tua ricerca di realizzazione?”
Srimad-Bhagavatam 1.5.2
L’autore della letteratura vedica fino a quel momento aveva messo per iscritto solo quella parte dei Veda che trattava degli argomenti del Brahman impersonale e della natura materiale, indicando i modi per vivere e realizzare la dimensione desiderata. Infatti:
“Hai pienamente delineato il soggetto del Brahman impersonale e la conoscenza che ne deriva…”
Srimad-Bhagavatam 1.5.4
Naturalmente anche nei Veda originali Vyasa aveva descritto l’aspetto ultimo della Verità Suprema, ma a giudizio di Narada non in modo sufficientemente esplicito.
“…egli (Vyasa) aveva certamente descritto le glorie del Signore, ma non quanto aveva fatto con la religiosità (dharma), lo sviluppo economico (artha), la gratificazione dei sensi (kama) e la salvezza (moksa). Questi quattro erano argomenti molto meno importanti dell’impegno nel servizio devozionale al Signore…”
Srimad-Bhagavatam 1.5.9, commento
Quel capitolo della Srimad-Bhagavatam ci conduce al frangente in cui Vyasa, sebbene avesse dato ai suoi futuri lettori una gran mole di conoscenza, si sentiva insoddisfatto. Perché?
(Narada disse:) “Tu non hai realmente diffuso le glorie sublimi e senza macchia della Personalità di Dio. Quella filosofia che non soddisfa i sensi trascendentali del Signore è considerata indegna.”
Srimad-Bhagavatam 1.5.8
“Sebbene, grande saggio, tu abbia ampiamente descritto i quattro principi, il primo dei quali è la religiosità, non hai parlato (a sufficienza) delle glorie della Suprema Personalità, Vasudeva.”
Srimad-Bhagavatam 1.5.9
In questi versi Narada sembra quasi volerlo rimproverare. Come puoi essere soddisfatto, gli dice, se cerchi di realizzare l’io pensando che sia il corpo o la mente?
Lo sfondo storico in cui si ambienta la Bhagavad-gita, antica di 5000 anni ma sempre attualissima, è altrettanto istruttivo. Arjuna era amico e discepolo di Sri Krishna, una delle incarnazioni principali di Dio. Arjuna era un guerriero e si era trovato nel tragico frangente di dover combattere contro un esercito composto dai suoi più cari amici e parenti. Nel momento in cui li vede, armati e pronti a uccidere o a essere uccisi, egli dice:
“Caro Krishna, vedendo amici e parenti davanti a me in tale spirito guerriero, mi sento in preda all’agitazione, tanto che la bocca mi si è completamente disidratata. Il mio corpo trema e i capelli si rizzano; l’arco Gandiva mi sfugge dalle mani e la mia pelle brucia. Non resisto a restare in questo posto neanche un momento di più. Sto persino dimenticando chi sono, e la mente vacilla. Prevedo solo disgrazie, o Krishna, uccisore del demone Kesi.”
Bhagavad-gita 1.28, 29 e 30
In seguito a un lungo discorso, Arjuna conclude dicendo:
“Govinda, io non combatterò.”
Bhagavad-gita 2.10
Arjuna è terrorizzato all’idea di dover uccidere parenti e amici. Questo è sicuramente un sentimento encomiabile, specialmente dopo tutto ciò che il Pandava aveva dovuto patire a causa dei suoi avversari,
Per sapere tutto sulla questione della inimicizia tra i Pandava e i Kaurava si legga il Maha-bharata.
ma quando dice “i miei parenti” si riferisce certamente al loro corpo. Un padre è legato al figlio da una relazione fisica, che finisce quando il corpo avrà cessato di vivere. Per questa ragione Sri Krishna ribatte:
“Caro Arjuna, come mai sei caduto vittima di queste impurità? Non si confanno a un uomo che conosca i valori della vita. Queste (le impurità) non conducono ai pianeti più alti, ma all’infamia.”
Bhagavad-gita 2.2
Sri Krishna le chiama addirittura impurità, in sanscrito kasmalam, sporcizie, elementi indesiderabili, e si rivolge ad Arjuna usando l’epiteto di anarya, o persona che ignori i valori veri della vita. Poi aggiunge:
“…non cedere a questa degradante impotenza; non è da te. Abbandona questa debolezza di cuore e risorgi…”
Bhagavad-gita 2.3
Non è da te, aggiunge Krishna, e sprona l’amico a risorgere dal fango della debolezza e a combattere. Qualcuno potrebbe rimanere sorpreso: Arjuna non vuole uccidere parenti ed amici ed è chiamato anarya? Si deve andare avanti fino al verso 11 del secondo capitolo per capirne le ragioni:
“Mentre (sembra che) parli come un erudito, (in realtà) ti stai lamentando per qualcosa di indegno. Coloro che sono saggi non si lamentano né per i vivi né per i morti.”
Bhagavad-gita 2.11
“Mai ci fu un tempo in cui io non esistetti, né tu, né tutti questi re; né in futuro qualcuno tra noi cesserà di esistere.”
Bhagavad-gita 2.12
“Come l’anima (che è) in un corpo passa dall’infanzia alla gioventù alla vecchiaia, in modo analogo l’anima si trasferisce in un altro corpo al momento della morte. Una persona sobria non è confusa da tali cambiamenti.”
Bhagavad-gita 2.13
Krishna vuole dire che solo apparentemente le parole di Arjuna sono giuste e ammirevoli, mentre in realtà non lo sono, perché ha dimenticato la prima e più importante verità della vita, che è la seguente: noi non siamo questi corpi materiali.
Quando dice: “come posso contrattaccare con le frecce in battaglia uomini come Bhisma e Drona, che sono degni della mia adorazione?”,
Bhagavad-gita 2.4
dimentica che Bhisma e Drona non sono le forme fisiche visibili in quel momento sul campo di battaglia nell’atto di brandire le armi sui loro carri da guerra; quelle erano solo le coperture corporee, non le persone stesse. Infatti è solo al momento della nascita che queste persone sono state identificate con quei nomi; ma esse preesistevano alla nascita e quindi al nome. Bhisma e Drona non erano quei corpi, ma qualcos’altro.
Le relazioni terrene sono fondate su una accidentalità corporale, sono quindi temporanee e prive di valore assoluto. Per cui correttamente Sri Krishna dice “in realtà ti stai lamentando per qualcosa che non è degno di essere preso in considerazione. Coloro che sono saggi non si lamentano né per i vivi né per i morti.” E ciò perché solo il corpo “muore” ma l’anima no, resta oltre ogni barriera del tempo. Arjuna non aveva ragione di soffrire per l’eventuale morte dei parenti per il semplice motivo che quelli non erano il corpo di cui erano rivestiti, ma l’anima.
E l’anima non può essere uccisa. Infatti:
“Ciò che pervade il corpo è indistruttibile. Nessuno può distruggere l’anima imperitura.”
Bhagavad-gita 2.17
“L’anima non potrà mai essere tagliata da nessuna arma, né bruciata dal fuoco, né intaccata dall’acqua, né essiccata dal vento.”
Bhagavad-gita 2.23
Nel secondo capitolo sono numerosi i versi che specificano che Arjuna neanche volendolo avrebbe potuto far del male ai suoi cari. Siccome c’erano delle valide e profonde ragioni per ritenere che quella fosse una delle poche guerre giuste e sante, Arjuna aveva il dovere di combattere. Rifiutare di farlo era sbagliato.
Sulla vera identità
D: Se non siamo il corpo, allora cosa siamo?
R: Mentre parlavamo del primo argomento, è stato inevitabile introdurre il secondo: se non siamo il corpo, questo che “indossiamo” ora, composto di elementi materiali, cosa siamo?
Non si può fare a meno di sentirsi identificati in questo, in quanto è ciò che vediamo e tocchiamo in ogni momento della nostra giornata; ma Sri Krishna non è d’accordo su questa conclusione e risponde dicendo: no, non siamo materia, ma anime spirituali. Il verso 2.13 già menzionato chiama il nostro sé, o “ciò che siamo”, dehina, “ciò che è dentro il corpo”, cioè l’anima. Quella siamo noi.
D: La jiva di cui parlano i Veda, e mi pare di aver capito in modo particolarmente specifico la Bhagavad-gita, è una essenza reale, vera, o un’entità illusoria, come proclamano certi filosofi?
R: Nel secondo capitolo (sempre della Bhagavad-gita), c’è un verso che secondo noi chiarisce bene questo punto.
“Coloro che vedono la verità hanno detto che il non-esistente non perdura e che l’eterno non cambia mai. Sono giunti a questa conclusione dopo aver studiato la natura di entrambi (le sostanze).”
Bhagavad-gita 2.16
Il significato del verso è il seguente: ciò che non perdura è chiamato non-esistente (asatah), e cioè che non ha esistenza assoluta. Il corpo materiale ha avuto un momento in cui è venuto ad esistere e ci sarà un momento in cui svanirà, dunque la sua esistenza è solo apparente. Le forme che assume sono temporanee, mai eterne: dunque sono tutte irreali.
La jiva invece è di natura spirituale, eterna (satah) e non cambia mai. E’ reale e sempre presente nella sua essenza e poiché la ragione della sua esistenza non viene mai meno, non cessa mai di vivere. Quindi la jiva è una realtà costante, e certamente non illusoria.
Quei filosofi che proclamano l’illusorietà dell’anima sono vittime dell’ignoranza e non hanno analizzato correttamente la natura e le caratteristiche delle due energie (quella materiale e quella spirituale).
D: Ma non si può negare che esiste una relazione fra il corpo illusorio e l’anima reale. Sembra un rapporto quasi di interdipendenza, di mutua necessità; cosa dicono i Veda a tale riguardo? in cosa consiste questo rapporto?
R: La jiva è il soggetto, siamo noi stessi. Il corpo invece è lo strumento d’azione per esercitare in questo mondo. Dunque dobbiamo dire di “avere” un corpo, non di esserlo; di “avere” un’intelligenza, non di “esserla”; di “avere o possedere” tutto ciò che diventa “nostro” nel corso della vita, mai di “esserlo”. Questa distinzione fra l’essere e l’avere è di importanza fondamentale e va ben assimilata. Se commettiamo l’errore di scambiare ciò che siamo con ciò che possediamo ci precludiamo la possibilità del successo finale.
D: In questa risposta sembra palese che il corpo perda di importanza, che assuma una posizione secondaria, mentre credo invece ne abbia molta. Come potrebbe l’anima muoversi, agire, fare qualsiasi cosa? come potrebbe esistere senza avere un corpo che la conduca lungo le strade della vita? Secondo me l’anima dipende dal corpo almeno quanto quest’ultimo dipenda da lei.
R: L’anima non ha affatto bisogno di un corpo per muoversi e vivere; anzi, è proprio il contrario.
D: Come è possibile? L’anima è trasportata da un corpo, senza del quale non potrebbe fare nulla. Se invece non ne avesse avuto la necessità, allora perché si sarebbe dovuta ricoprire di un involucro così limitato e ingombrante?
R: Per capire bene questo punto andrebbe discussa la ragione della nostra caduta in questo mondo, cosa che faremo fra poco. Comunque rispondiamo alla domanda.
In realtà si deve ammettere che lo sarira (il corpo) è uno strumento necessario all’anima, ma solo in un certo senso. Per capire vanno impostate le rispettive realtà e le rispettive posizioni nell’ordine del creato.
Facciamo un esempio. La giacca che indossiamo non vive di vita propria, anche se la vediamo muoversi, agire; in realtà, per quanto necessaria, è solo uno strumento del corpo e il suo movimento è dovuto all’azione delle braccia al suo interno. E’ la giacca che per muoversi ha bisogno del braccio e non viceversa. Invece la necessità del corpo nei confronti della giacca è strumentale e non pregiudiziale per la sua vita.
Allo stesso modo è il corpo che ha bisogno dell’anima per muoversi, per mostrare sintomi di azione, e non viceversa. In altre parole, il corpo senza l’anima non può muoversi, mentre l’anima può farlo anche senza il corpo materiale.
D: In che modo l’anima può farlo? Non abbiamo ancora visto un’anima vivere priva di un corpo.
R: L’anima può esistere in due diverse dimensioni: lo stato liberato e lo stato condizionato.
Nel primo caso la materia è totalmente inutile per la jiva, anzi rappresenterebbe un impaccio enorme. L’anima pura nel mondo spirituale possiede un corpo della stessa natura, e con quello vive e agisce senza necessità di uno yantra (una macchina). I pianeti trascendentali in realtà sono fatti in modo tale che l’anima possa muoversi senza problemi di sorta.
Ma quando la jiva decide di scendere in questo mondo, non potrebbe soddisfare i suoi desideri malsani se non avesse un veicolo capace di muoversi in questa atmosfera. Il corpo spirituale non è adatto. La pura coscienza non potrebbe mai esercitare la sua azione in modalità tanto diverse dalla sua natura: non potrebbe godere delle cose materiali se fosse sempre e perfettamente consapevole di non essere parte di tutto questo. Così viene fornita non solo di un corpo, ma anche di una coscienza materiale, che poi è la propria coscienza macchiata dall’influenza di maya (ahamkara). L’ahamkara, il potere di identificazione, ci permette di vagare per i tragici meandri di questo mondo a noi straniero, dimentichi della nostra casa d’origine.
Dunque l’anima necessita di una copertura materiale solo per soddisfare i propri bisogni e non per costituzione originale.
Argomenti di prova
D: Ci sono modi per essere certi, o almeno per accettare con un ragionevole margine di probabilità che tutto ciò che avete detto corrisponda alla verità?
R: Dipende da cosa intendiamo per certezza. Se per essere certi abbiamo bisogno di visualizzare la cosa con gli occhi o sottoporre l’oggetto della nostra ricerca al tatto, sicuramente avremo qualche problema nell’accertare l’esistenza o anche solo la ragionevolezza dell’anima. I nostri sensi materiali sono molto limitati a questo riguardo. Bisogna anche dire che la risposta a questa domanda coinvolge anche un’analisi della sua natura opposta, quella materiale, che tuttavia approfondiremo solo in seguito, nel capitolo dedicato a maya-sakti.
Prima di tutto dobbiamo usare un senso più sottile degli altri, l’intelligenza. Innanzitutto dobbiamo capire, dopo potremo vedere. La domanda è stata precisa: chi siamo noi?
Quando dico “io” implico necessariamente una persona. Un tavolo non dice “io”, né ci rivolgiamo ad esso chiamandolo “lui”; questo perché il tavolo non è una persona ma un oggetto, un agglomerato di elementi inerti. Per questo non è un “lui”. Io dico “io” perché sono una persona. In cosa differiscono, allora, l’io e il tavolo? Non è difficile rispondere: il primo è costituito di vita, il secondo ne è privo. L’uno è spirito e l’altro è materia.
La differenza che intercorre tra materia e spirito è netta. Sono elementi opposti nella loro sostanza più intima. La prima è inerte e impersonale, la seconda è viva e personale.
Noi ci muoviamo, noi siamo vivi: dunque non possiamo essere materia, la quale per l’appunto non potrebbe mai né muoversi né vivere. In sé non ha nessuna delle caratteristiche necessarie a far vivere nulla, che dire di un vasto e complesso insieme di fenomeni psicofisici che è l’essere umano. La vita, con tutte le sue qualità e caratteristiche, è assente nella sua costituzione propria.
Un altro esempio. Osserviamo il momento della morte: fintanto che l’anima è presente all’interno del corpo, questo si muove, ma appena l’anima ne esce, sopravviene il fenomeno che noi chiamiamo morte. Il corpo che prima si muoveva, ragionava, parlava e faceva tante altre cose, non può più muoversi, non può più fare niente. Eppure tutti gli elementi che ne componevano la struttura sono ancora lì presenti, non sono cambiati affatto; perché dunque il movimento, la vita, sono scomparsi e mai nessuna cura varrà a restituirglieli?
E’ l’anima che fa muovere il corpo, proprio come noi dall’interno facciamo muovere il nostro vestito. Quando l’anima va via non è più possibile far vivere il corpo.
D: Visto che la materia non avrebbe la possibilità di muoversi eppure mostra tanto dinamismo, che tipo di movimento è il suo?
R: Riprendiamo l’esempio del vestito. Vediamo la giacca muoversi, ma ciò non vuole dire che lo faccia di moto proprio. Infatti se ce la togliamo e la gettiamo sul pavimento constatiamo che in realtà non possiede la capacità del movimento. Solo un pazzo direbbe: “toh, guarda, la giacca si muove”. Si deve dire che è il braccio al suo interno che la fa muovere. In realtà la stoffa di cui quel vestito è costituito è totalmente priva di ogni vita. La giacca non può muoversi senza il braccio, mentre al contrario il braccio può vivere benissimo anche senza la giacca.
Pertanto il suo movimento è puramente meccanico; l’unico moto di cui la materia sia capace.
D: Dunque è il corpo che per fare qualsiasi cosa ha bisogno dell’anima. Ma la materia, energia inerte e priva di vita, per propria natura non ha bisogni da soddisfare. Perché allora dovrebbe sentire la necessità di fare, di cercare, di vivere?
R: No, infatti la materia non ha alcun bisogno da soddisfare. Il suo movimento è puramente meccanico e non riveste connotati vitali. In altre parole non si muove alla ricerca di felicità, o di conoscenza, né per nessun’altra ragione. Si muove solo perché riceve l’impulso dall’energia spirituale, dalla jiva, dal suo padrone. E’ come un’automobile, che si muove e agisce solo quando e perché il proprietario la mette in moto e spinge i pedali.
Siamo composti di anima e corpo?
O: Si è capito bene, dunque, che secondo i Veda la natura materiale è solo uno strumento nelle mani dello spirito. Ma avanziamo un’altra ipotesi: non potremmo noi essere composti di anima e corpo? In fin dei conti in questo momento è esattamente ciò che siamo, e cioè una miscela di qualcosa che vive e un corpo, attraverso il quale la vita si estrinseca. Del resto l’avete detto voi stessi: in questo mondo come potrebbe l’anima agire senza il corpo?
R: Il corpo lo assumiamo al momento della nascita, mentre l’anima, in quanto eterna, è sempre esistita. Come potremmo mai essere qualcosa che prendiamo e che dopo un certo periodo di tempo siamo costretti a lasciare? Ovviamente noi siamo ciò che prende una certa cosa, e non l’oggetto posseduto. Mentre l’oggetto è un fenomeno accidentale, il soggetto permane. Quando il corpo diventa inutile ai nostri scopi, noi lo abbandoniamo e ne prendiamo un altro. Ma noi, le jiva, rimaniamo sempre le stesse, trascendentali a questo mondo. Infatti la Bhagavad-gita afferma:
“Come l’anima (che è) in un corpo continuamente passa dall’infanzia alla gioventù (e poi) alla vecchiaia, in modo analogo si trasferisce in un altro corpo al momento della morte. Una persona sobria non è confusa da tale cambiamento.”
Bhagavad-gita 2.13
Qui la trascendenza dello spirito è confermata. E’ l’anima che passa da uno stato fisico a un altro, rimanendo immutata. Non è detto da nessuna parte, infatti, che l’anima cambi o diventi qualcosa d’altro durante le trasformazioni del corpo. La materia decade, lo spirito in qualità permane e non muta nella sua essenza intima.
Per quanto riguarda invece l’impossibilità dell’anima di agire senza un corpo, va ribadito che tale affermazione vale solo per questo mondo, in quanto nell’universo spirituale la jiva possiede un proprio corpo spirituale, del tutto simile alla sua natura, con il quale può agire benissimo, anzi in modo molto più efficace.
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