Arjuna nei pianeti celesti
La magica atmosfera che la presenza di Shiva aveva determinato era ancora palpabile, quando Arjuna vide apparire in uno straordinario alone di luce i quattro Lokapala. Indra, Kuvera, Yama e Varuna gli consegnarono personalmente le loro armi e dopo avergliene insegnato il complicato uso, svanirono allo stesso modo di come erano venuti.
E il Pandava stava ancora chiedendosi cosa aveva fatto di così grande per aver meritato tali visioni, quando vide avvicinarsi il carro di Indra guidato dal celeste Matali.
“Vieni,” gli disse questi, “sali sul carro. Tuo padre desidera vederti: ha bisogno di te. Io ti porterò nel suo regno.”
Dopo che Arjuna ebbe preso posto, il carro si innalzò verso il cielo al pari di una cometa di luce.
Viaggiando a quella inimmaginabile velocità, i due arrivarono in pochi istanti ad Amaravati, la capitale di Indra. Dall’alto il Pandava osservava con stupore le meraviglie di quella città, ove la bellezza pervadeva ogni cosa, dalle case ai giardini, dalle strade alla gente che vi passeggiava. Arjuna si sentiva stupefatto e ammirato.
Giunti al favoloso palazzo di Indra, il Deva lo accolse a braccia aperte e lo invitò affettuosamente a sedersi accanto a lui, sul suo stesso trono.
Quelli che seguirono furono giorni felici per Arjuna; intrattenuto a corte con ogni riguardo, ascoltava i Gandharva suonare in modo incantevole i loro strumenti musicali e, accompagnate da quei suoni estasianti, le più famose Apsara quali Menaka, Rambha, Urvashi e Tilottama danzavano per il suo piacere. Arjuna era felice.
Durante le danze, la stupenda Urvashi si ritrovò a osservare quel bellissimo uomo, e poichè questi ricambiava i suoi sguardi con insistenza, credette di aver suscitato in lui desideri sessuali.
Quella sera l’Apsara andò da Indra e gli chiese:
“Oggi tuo figlio mi guardava continuamente. Di certo gli piaccio, e anche lui mi attrae. Vorrei chiederti il permesso di andare nelle sue stanze, stanotte.”
Il Re dei Deva, sorridendo, acconsentì.
Quella stessa notte la donna entrò nell’appartamento dove alloggiava Arjuna e aprì la porta della stanza dove egli stava dormendo. Urvashi era così bella che nel passato grandi e famosi saggi, dopo anni di pratiche e sacrifici, al solo vederla non erano stati in grado di controllare i loro sensi e allo stesso modo grandi monarchi santi, per quanto fortificati dalla stretta osservanza dei principi del loro dharma, erano caduti vittime del suo straordinario splendore. Coperta da un unico velo e con i capelli che brillavano sotto il chiarore della luna, Urvashi era una meraviglia del creato. Nessun uomo avrebbe potuto resisterle.
“Signora beata,” disse Arjuna alquanto sbalordito, “cosa posso fare per te? Perchè sei venuta a trovarmi nel cuore della notte?”
“Oggi mentre danzavo ho notato che i tuoi occhi, quando si posavano su di me, si colmavano di passione. Ho pensato che mi desideravi, e siccome anche tu mi piaci sono venuta qui per donarti il mio amore.”
Arjuna s’irrigidì.
“Oh no, ti sbagli. Io non ti guardavo con intenzioni lussuriose, bensì con affetto e curiosità. Fin da ragazzo, quando mi raccontavano la storia della vita del nostro antenato Pururava, ho sempre cercato di immaginarti e mi sono sempre chiesto quanto dovesse essere ammaliante la donna che lo aveva fatto così tanto innamorare. Essendo stata la sua compagna, anche tu sei una nostra antenata, e io non posso considerarti in altro modo se non come una madre, proprio al pari di Kunti. La devozione che nutro nei tuoi confronti va al di là di ogni desiderio sessuale e mi induce a considerarti con il rispetto dovuto a una Devi. Per queste ragioni non posso pensare a te come a un’amante.”
Urvashi insistette, avvalendosi del fatto che una loro unione non era contraria ai principi della religione, ma il giusto figlio di Indra non cedette; alla fine Urvashi, presa dalla frustrazione e dall’umiliazione, disse:
“Siccome con me non ti sei comportato da uomo, presto perderai i tuoi poteri sessuali e diventerai un eunuco.”
Proferite quelle parole, se ne andò infuriata.
Spaventato da quella violenta maledizione, Arjuna andò a confidarsi con il suo più caro amico, il Gandharva Citrasena, il quale il giorno seguente raccontò l’accaduto a Indra. Il monarca celestiale parlò con la ragazza che, nonostante fosse ancora amareggiata per il rifiuto ricevuto, accettò di modificare la maledizione.
“Giacchè Arjuna non ha voluto unirsi a me per ragioni di virtù, perderà le sue capacità sessuali solo per il periodo di un anno, che egli stesso potrà scegliere,” disse.
Come vedremo in seguito, l’esplosione d’ira di Urvashi sarebbe tornata comoda.
Durante il tempo che trascorse ad Amaravati, il figlio di Pandu imparò dal padre molte cose sull’arte della guerra, tra cui l’uso di numerose armi celesti; da Citrasena, invece, apprese l’arte del canto e della danza. Quegli anni a Svarga si rivelarono eccezionalmente costruttivi.
Un giorno arrivò ad Amaravati il saggio Lomasa che, approfittando del fatto che Arjuna era lì presente, rivelò che nella vita precedente lui e Krishna erano stati i Rishi Nara e Narayana.
Poi Indra disse:
“Rispettabile saggio, è passato molto tempo da quando Arjuna è arrivato qui e forse i fratelli e la moglie sono preoccupati per lui. Per favore, dì loro di averlo visto qui da me, e che sta imparando sull’arte marziale quanto basta per sterminare i perfidi figli di Dhritarastra e i loro amici. Dì loro che presto tornerà, che potranno rivederlo sulla vetta di Mandara e che nel frattempo dovrebbero andare in tirtha-yatra a visitare luoghi santi e ad ascoltare i discorsi dei saggi.”
Lomasa tornò sulla Terra e si diresse verso Kamyaka.
Il pellegrinaggio verso Mandara
Non sempre la vita nella foresta era idilliaca. Spesso il freddo, gli animali e altri fenomeni naturali la rendevano dura, specialmente in inverno, stagione in cui la delicata Draupadi soffriva maggiormente. Oltre a tutto ciò si sentiva anche la mancanza di Arjuna e in quel periodo le pressioni di Bhima e Draupadi, le loro lamentele e le loro accuse si accrebbero facendosi sempre più aspre.
Yudhisthira aveva il suo da fare a tenerli calmi e per quanto esternamente apparisse sempre calmo e controllato, in realtà le inquietudini del fratello e della moglie toccavano il suo cuore e aumentavano in lui il rimorso di averli messi in quelle condizioni di patimento.
Per fortuna l’arrivo di Brihadashva alleviò un pò la tensione.
Tra l’altro in quel periodo il maggiore dei Pandava, grazie all’aiuto del Rishi, potè studiare la scienza del gioco dei dadi.
Yudhisthira comunque non fu l’unico ad apprendere cose nuove. Brihadashva, infatti, impartì lezioni su svariati argomenti a tutti i presenti.
Come è facile immaginare, il tempo speso in quel modo sembrò volare. Ma le sorprese piacevoli non erano ancora finite: qualche giorno dopo arrivò anche Narada, il quale venne messo al corrente delle smanie di alcuni di loro.
“Stare fermi in un posto per tanto tempo a qualcuno può risultare molto faticoso,” disse allora il saggio. “Forse è meglio che vi muoviate. Sicuramente un tirtha-yatra vi farà bene. In casi come questi un pellegrinaggio distrae dai pensieri negativi e purifica la mente e il cuore.”
Dhaumya era d’accordo, ma sarebbe stata necessaria una guida esperta dei numerosi luoghi santi di Bharata-varsha.
Proprio in quei giorni, proveniente dai pianeti celesti, arrivo’ Lomasa, il quale raccontò degli ultimi sviluppi del viaggio di Arjuna e del messaggio di Indra. Immensamente felici e rinfrancati alla notizia che il fratello era riuscito nel suo intento, appena sentirono che anche Indra consigliava loro un viaggio, chiesero a Lomasa di guidarli.
Il saggio accettò di buon grado.
Pochi giorni dopo i Pandava partirono.
Dapprima visitarono Naimisha, la regione in cui scorre il sacro Gomati, poi videro il santissimo luogo Prayaga, dove le acque dorate del Gange si uniscono a quelle blu dello Yamuna; a quei tempi quel posto era chiamato Triveni Sangama. E continuando così visitarono numerosissimi luoghi tra i più benedetti e belli dell’India. E ovunque si trovassero Lomasa aveva da raccontare storie meravigliose di uomini fantastici che erano vissuti sul posto.
Poi si diressero verso occidente: arrivati a Dvaraka, trascorsero splendide giornate in compagnia di Krishna, Balarama e degli altri Vrishni.
Ripreso il cammino, si diressero a nord.
Vollero soffermarsi sulle rive del Sarasvati, il luogo dove Shibi mostrò a Indra la sua grandezza. E poi a Mainaka, e a Kailasha, dove si può ammirare la sorgente del Gange. In quelle atmosfere paradisiache persino Bhima dimenticò i suoi odi e le sue sofferenze.
Sulle vette dell’Himalaya
Il viaggio durò dei mesi.
A un certo punto si ritrovarono a scalare vette altissime, in direzione del monte Mandara: lì, tra breve, Arjuna sarebbe ridisceso dai pianeti celesti. Dal giorno della sua partenza erano trascorsi cinque anni e, mai come allora, la nostalgia per la lontananza dell’amato si era sentita tanto intensamente: tutti non vedevano l’ora di riabbracciarlo.
Ma l’impresa si rivelò estenuante, specialmente per la delicata Draupadi, la quale non era certo stata preparata a quelle fatiche immani. Fortunatamente c’era Bhima che non ebbe difficoltà a portarla sulle spalle.
A Badari stavano visitando l’ashrama in cui Nara e Narayana avevano svolto le loro penitenze quando, nei pressi di quel santo eremo di spiritualità, scoppiò un uragano così potente che persino Bhima dovette mettersi al riparo; non durò a lungo, e così come era apparso all’improvviso, il vento cessò, lasciando il posto a violenti scrosci d’acqua. Dopo un pò anche la pioggia terminò e il sole riapparve rischiarando la volta celeste. Ma quell’esplosione di violenza naturale aveva oramai abbattuto i residui di resistenza di Draupadi che perse i sensi, spossata dalle fatiche e dalle privazioni, dai continui sbalzi di temperatura, dalle veglie e dal cibo scarso.
Immediatamente le furono tutti accanto, prodighi di cure.
Appena la moglie si riebbe, Yudhisthira le consigliò di riposarsi. E, intanto, avvedutosi di aver preteso troppo dall’eroica donna, cercò una soluzione.
“Draupadi non può più camminare da sola,” disse infine ai fratelli; “qualcuno deve portarla in braccio. Purtroppo anche noi siamo stanchi e queste vette sono difficili da superare. Forse Ghatotkacha e i suoi potenti Rakshasa potrebbero risparmiarci ulteriori fatiche portandoci sulle loro spalle.”
Bhima fu d’accordo e chiamò il figlio, il quale accettò di organizzare il trasporto di tutti su per le vette himalayane. Solo Dhaumya e Lomasa vollero proseguire confidando sulle loro forze.
A Kailasha si fermarono e posero l’accampamento.
Trascorsero giorni sereni, riacquistando le energie perdute.
Bhima incontra Hanuman
In quello scenario montano, splendido e salubre, Draupadi ritrovò la serenità che era tipica del suo carattere.
Un giorno trovò uno stupendo fiore di loto dal profumo inebriante e dolcissimo, e desiderò averne in gran numero. Così corse da Bhima.
“Bhima, guarda quanto è bello questo loto, e senti che profumo. Sicuramente è stato portato fin qui dal vento e ce ne dovranno essere molti altri in qualche bosco non lontano. Per favore, procuramene più che puoi, che voglio piantarli dietro la capanna.”
Dopo tutti i disagi che aveva sopportato, qualche fiore era fin troppo poca cosa per farla felice, così il Pandava le assicurò che gliene avrebbe portati al più presto. Si alzò e andò a cercarli.
Arrivato nel fitto della boscaglia, cominciò a procedere con l’impeto prepotente che gli era peculiare, abbattendo alberi e causando un frastuono tale che spaventava e faceva fuggire gli animali.
Non molto lontano da lì viveva Hanuman.
“Che strano rumore! Chi può essere a fare tutto questo baccano? E’ meglio andare a dare un’occhiata,” pensò.
Saltando di albero in albero arrivò in prossimità di Bhima. Lo vide avanzare con grande velocità, incurante di qualsiasi ostacolo che si frapponeva al suo cammino. Non vi erano dubbi: quella figura possente, che incuteva un senso di timore solo a guardarla, non poteva essere altri che suo fratello, nato dalla stessa energia di Vayu. Pensò che sarebbe stato bello per entrambi incontrarsi. Allora si sdraiò in terra fingendo di essere una scimmia vecchia e stanca, che si era addormentata nel mezzo del sentiero.
Quando Bhima lo vide disse:
“Spostati. Devo andare a cercare dei fiori per mia moglie. Non farmi perdere del tempo, lasciami passare. Se ti travolgo ti faccio male.”
“Sono troppo vecchio e stanco e non riesco neanche più a spostarmi. Ma visto che sei giovane e forte fallo tu, oppure se proprio hai così tanta fretta, fa un salto sopra il mio corpo.”
“Non è corretto saltare sopra nessuno,” rispose Bhima, “perchè nel corpo di ogni entità vivente risiede il Signore Supremo nella forma di Paramatma ed è offensivo passarvi sopra. Ma siccome sei così vecchio ti sposterò più in là.”
Al pensiero di Draupadi che aspettava i fiori di loto e quindi leggermente irritato per quella perdita di tempo, Vrikodara afferrò Hanuman per la coda e con noncuranza si apprestò a trascinarlo; ma quale fu la sorpresa quando si accorse che non riusciva a spostarlo neanche di un millimetro. Stupito da tanto peso, afferrò la coda con ambedue le mani e diede un possente strappo, ma il risultato non fu diverso. Voltatosi verso la scimmia si avvide che questa lo osservava con aria ironica. Bhima allora, al culmine della rabbia, impiegò tutte le sue forze; ma l’esito non fu migliore.
“Chi sei?” gli chiese a quel punto con tono umile. “Tu sembri privo di energie, ma per resistere alla mia forza devi essere qualche Deva, o qualche Gandharva, o qualche forte Asura. Dimmi chi sei.”
La scimmia si alzò in piedi e sorrise.
“Io sono tuo fratello Hanuman, nato dal tuo stesso padre, il Deva del vento. Milioni di anni fa aiutai Sri Rama a debellare la peste di Treta-yuga. Ormai da molti millenni vivo su queste alture e oggi, appena ti ho visto, ho provato un grande desiderio di parlarti.”
Bhima, riconosciuto finalmente il Vanara Hanuman, lo abbracciò con affetto fraterno. Poi si sedettero a parlare.
“Conosco i problemi che vi assillano e sono certo che grazie alla tua forza e al valore di Arjuna avrete la meglio sui figli malvagi di Dhritarastra. Anch’io desidero partecipare alla guerra, proprio come a Lanka. Tuttavia non combatterò personalmente, bensì mi siederò sulla bandiera del carro di Arjuna e lancerò in continuazione grida di guerra che spaventeranno a morte i vostri nemici. Anche in questa battaglia il mio Signore Rama sarà presente come parte di Krishna, per cui non potrete fare altro che vincere.”
Dopo aver conversato per un pò, Bhima chiese al fratello di mostrargli la forma fisica grazie alla quale aveva portato la montagna a Lanka, e Hanuman si espanse in modo prodigioso. Il Pandava restò di stucco dinanzi a tale meraviglia.
Poi Hanuman abbracciò ancora il fratello e scomparve.
Allora Bhima si ricordò del motivo per cui si trovava lì. Più che mai determinato a far felice Draupadi, continuò impetuosamente a seguire il dolce profumo dei fiori, riprendendo l’ascesa della montagna.
D’un tratto, immersi nella densa foresta, si ritrovò davanti a giardini stupendi, ricchi di piante e fiori di ogni tipo e di straordinaria bellezza; e lì, in un laghetto sorvegliato da numerosi e robusti Rakshasa dall’aspetto piuttosto minaccioso, vide i loto tanto desiderati da Draupadi. Senza curarsi dei guardiani, Bhima si tuffò nel lago e prese a raccoglierne in gran numero.
Subito i Rakshasa intervennero.
“Fermo, tu, se non vuoi morire. Questo è il giardino personale di Kuvera, il Deva delle ricchezze, e noi abbiamo il compito di sorvegliarlo e di impedire l’accesso agli intrusi. Nessuno all’infuori di lui può entrarne e uscirne vivo. Chi sei?”
“Io sono Bhima, il secondo dei figli di Pandu, e sono venuto fin qui per cogliere questi fiori di loto per mia moglie. Non ho paura di nessuno, tantomeno di voi. Le vostre minacce non mi impressionano. Dunque non disturbatemi se volete mantenervi in vita.”
I Rakshasa, tutti alti come montagne e dal viso terribile come quello della morte, non tollerando quelle provocazioni, si lanciarono con veemenza all’attacco. Uscito dalle acque con la violenza di un drago infuriato, l’invincibile Pandava si scagliò contro quel folto gruppo e ne fece una carneficina. Fra i tanti, sconfisse persino il potente Maniman, temuto da tutti.
Durante la lotta qualcuno era riuscito a sottrarsi ai colpi di Bhima ed era corso da Kuvera per metterlo al corrente dell’accaduto.
“Un mortale arriva fin qui e solo per fare piacere alla moglie coglie i miei fiori e riesce a sterminare i miei Rakshasa? E’ impossibile. Voglio andare a vedere di chi si tratta.”
Nel frattempo gli altri Pandava, preoccupati per la prolungata assenza di Bhima, decisero di andare a controllare, perchè conoscendolo erano sicuri che si fosse cacciato in qualche guaio. La devastazione che questi aveva causato durante il cammino servì loro per seguirne le tracce.
Arrivati al lago, lo trovarono che ansimava e ruggiva come un leone, incutendo lo stesso terrore di Yama: usando come arma un albero gigantesco, questi massacrava qualsiasi Rakshasa osasse affrontarlo.
Intanto era giunto anche Kuvera e, avendo riconosciuto Bhima, capì immediatamente quanto era successo. Non appena il figlio di Vayu vide il Deva, pose fine a quel terribile sterminio, e i Pandava poterono offrire i loro omaggi.
“Yudhisthira,” disse Kuvera, “mi avevano detto che un mortale aveva profanato il mio lago e aveva ucciso molti dei miei Rakshasa più potenti: io mi chiedevo chi avesse potuto fare una cosa del genere. Ma ora che so che si tratta di Bhima, capisco che i miei guardiani hanno commesso un grave errore impedendogli di cogliere i fiori. Ti prego, non adirarti con questo tuo fratello talvolta impulsivo, perchè in realtà uccidendo Maniman e gli altri mi ha aiutato a liberarmi da una maledizione.
“Vi racconterò di quale maledizione sto parlando.
“Un giorno io e il mio fidato compagno Maniman stavamo volando a un conclave di Dei, quando dal cielo vedemmo il saggio Agastya impegnato in severissime ascesi. Il suo corpo sembrava in fiamme, come un secondo sole: era una sola massa di energia. Io in verità non potei fare altro che ammirarlo, ma il mio amico si prese gioco di lui al punto che defecò sulla sua testa.
“Agastya guardò in alto e ci vide: la sua rabbia divampò, e i suoi occhi sembrarono divorare i quattro punti cardinali. Poi disse:
“Giacchè questo tuo amico mi ha insultato in questo modo, lui e le sue truppe periranno in battaglia contro un mortale e tu, che non gli hai impedito di commettere l’affronto, soffrirai per la loro perdita. Solo allora sarai libero dalla mia maledizione.
“Ora che Maniman e i suoi soldati sono morti, io sono salvo. E per questo devo ringraziare il tuo potente fratello.”
Dopo aver raccontato quella storia ai Pandava, Kuvera se ne andò.
A parte quell’incidente i giorni passarono tranquillamente, offuscati solo dall’ansia di riabbracciare Arjuna.
Il ritorno di Arjuna
Erano trascorsi esattamente cinque anni dalla partenza di Arjuna da Kamyaka, quando i Pandava notarono un fenomeno irreale provenire dalla cima del monte: era una luce potentissima, che abbagliava come i raggi del sole in piena estate.
Placatasi quella straordinaria manifestazione, tutti poterono guardare in quella direzione e vedere un fantastico carro da guerra celeste guidato da Matali. Nel carro, attorniato da un alone di gloria, c’era Arjuna, che teneva stretto nella mano Gandiva. Disceso, corse ad abbracciare i fratelli, la moglie e i Brahmana. E mentre costoro discutevano felici di essersi ritrovati dopo anni di separazione, Indra, che desiderava vedere Yudhisthira, comparve.
“Virtuoso Re,” gli disse, “presto ogni sofferenza avrà fine e i tuoi nemici raccoglieranno il frutto di ciò che hanno seminato. Io sarò dalla tua parte, perchè i figli di Dhritarastra e i loro compagni sono Asura incarnati sulla Terra e stanno causando troppo disturbo alla quiete del pianeta. Voglio anche ringraziarti per aver permesso ad Arjuna di venire a Svarga: mi è stato infatti di grande aiuto, come egli stesso ti racconterà nei prossimi giorni. Ora tornate a Kamyaka e lasciate trascorrere i pochi anni che ancora vi restano, dopodichè giustizia sarà fatta.”
Dopo averli benedetti, Indra e l’auriga Matali scomparvero.
I giorni che seguirono furono interamente spesi ad ascoltare Arjuna che raccontava nei minimi dettagli i numerosi avvenimenti accaduti nei cinque anni trascorsi sui pianeti celesti. Tra l’altro narrò di come avesse distrutto le malvagie popolazioni dei Nivata-kavacha, dei Paulama e dei Kalakanja.
Mancava solo un anno al completamento del periodo promesso; poi avrebbero dovuto trascorrere un altro anno in incognito e il supplizio sarebbe terminato.
La storia di Nahusha
Dopo alcuni mesi il santo Lomasa partì. E non trascorse molto tempo che anche i Pandava decisero di lasciare le vette himalayane e ridiscendere a valle per fare ritorno a Kamyaka.
Come sempre, durante il cammino, i fratelli ebbero modo di visitare molti posti interessanti, fra cui l’ashrama di Vrishaparva.
Un giorno, mentre Bhima era solo nella foresta, non s’avvide della presenza di un gigantesco pitone sul ramo di un albero, per cui, quando vi passò sotto, fu serrato nelle sue spire. Il figlio di Pandu non prestava mai particolare attenzione ai pericoli rappresentati dagli animali della giungla, in quanto credeva di essere abbastanza forte da poter superare ogni avversità. Così, quando tentò di liberarsi allargando le sue forti braccia, si sorprese di non riuscirci. Allora cercò di impiegare tutta la forza a sua disposizione, ma il corpo dell’animale sembrava fatto del metallo più duro. La cosa strana era che più energia adoperava, più sentiva che gli venivano meno. Quello non poteva essere un normale pitone.
“Chi sei tu,” chiese il Pandava, stremato, “che resisti alla pressione delle mie braccia? Sicuramente non sei un comune serpente, altrimenti il tuo corpo si sarebbe già spezzato.”
“Tanto tempo fa ero un Re molto famoso; poi il Rishi Agastya mi maledisse a nascere in questa miserabile forma vivente. Ma ora non ho voglia di parlare. Oggi sono particolarmente affamato, e la provvidenza ti ha mandato a me per sfamarmi.”
Nel frattempo Yudhisthira, che aveva scorto in cielo presagi di un’immane tragedia, si informò su chi dei suoi fratelli mancava. Quando gli dissero che Bhima non era lì, questi preoccupatissimo si lanciò nella densa boscaglia, sulle sue tracce. Lo trovò avvolto nelle spire del gigantesco pitone mentre si divincolava quasi privo di energie. Realizzò immediatamente che ci doveva essere qualcosa di strano. Chi avrebbe potuto ridurre Bhima in quello stato?
“Chi sei tu,” gli chiese, “che sei stato capace di privare di tutte le sue forze il possente figlio di Vayu? Rivelami il tuo nome e la tua storia.”
“Io sono Nahusha, uno dei vostri antenati. Giacchè lo hai chiesto, ascoltatemi bene, e ti narrerò in breve la mia storia.
“Quando Indra dovette nascondersi per espiare le offese arrecate al guru Vishvarupa e per l’assassinio del demone Vritra, il trono dei Deva rimase vacante. I Rishi allora vennero da me, sulla Terra e mi chiesero di sostituire il loro Re finchè questi non fosse tornato. Io che non mi ritenevo sufficientemente potente per governare sull’intero universo nè per scontrarmi con gli Asura più forti, esternai loro le mie perplessità. Ma i saggi mi rassicurarono:
‘Non temere, noi ti doneremo il potere di assorbire l’energia di qualsiasi essere vivente che incontrerai di modo che potrai fronteggiare tutte le emergenze e sovrastare qualsiasi avversario.’
“Così cominciai a governare su Svarga con sufficiente rettitudine, obbedendo sempre ai consigli dei santi.
“Tuttavia a un certo punto il potere mi giocò un brutto scherzo e cominciai a pensare di essere diventato oramai invincibile. Mi invaghii della moglie di Indra, Saci, e la volli come sposa. Lei, casta e fedele al marito, mi rifiutò diverse volte. Per queste ragioni i Deva e i Brahmana si videro costretti a congiurare per mettere fine al mio governo empio.
“Un giorno Saci mi disse:
‘Sarò tua se verrai a casa mia su un palanchino sorretto dai sette Rishi, tra cui Agastya.’
“Io, che ero come impazzito per la sua bellezza divina, pur di averla non pensai al grave peccato che stavo per commettere e ordinai ai saggi di portarmi. E mentre andavamo verso la casa di Saci, impaziente di possederla, calciai più volte il venerabile Agastya, dicendogli:
‘Sarpa, sarpa!’.
“Sarpa significa ‘presto’, ma anche serpente. Allora il Rishi mi maledisse dicendomi:
‘Giacchè mi hai scalciato come un villano senza cultura, diventerai un sarpa sulla Terra, e vivrai a lungo in quelle condizioni. Ti libererai solo quando qualcuno saprà rispondere perfettamente alle domande più complicate sul sapere umano.’
“Per questa ragione io vivo ancora oggi come un pitone in questa giungla, e ora mi sfamerò con il corpo di tuo fratello, a meno che tu non voglia tentare di rispondere alle mie domande.”
“Dimmi, voglio tentare.”
La discussione si protrasse per diverso tempo e poichè il Pandava rispondeva a tutte le questioni che Nahusha gli poneva, alla fine questi liberò Bhima: come d’incanto il corpo del rettile scomparve e al suo posto si manifestò la sua forma umana originale. Davanti ai loro occhi, Nahusha ascese al cielo. Bhima era salvo.
Ripreso il viaggio, i fratelli si fermarono per diverso tempo nella pacifica foresta di Dvaita, che avevano avuto modo di visitare durante l’andata. Ora che il periodo d’esilio stava scadendo, nessuno riusciva più a prestare veramente attenzione alle bellezze naturali: i pensieri di tutti erano rivolti al giorno della guerra.
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