La Filosofia del Bhakti Yoga – Maya-sakti (l’energia materiale) – parte 3

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D: E la suddivisione in quattordici sistemi planetari?

R: Questi sono a loro volta suddivisi in due parti: una superiore e l’altra inferiore.

La prima è costituito dai pianeti Bhur, Bhuvar, Svar, Mahar, Janas, Tapas e Satya. La seconda dagli Atala, Vitala, Sutala, Talatala, Mahatala, Rasatala e Patala.

D: Da quanto avete affermato in precedenza sembrerebbe che esista vita su altri pianeti. Ma utilizzando mezzi scientifici e dunque indubitabili, i nostri astronomi hanno dimostrato che non è possibile che esistano forme di vita simili alla nostra da nessuna parte.

R: Queste sono altre teorie che per ora rimangono tali. E non è vero che i “mezzi scientifici” siano esenti da possibilità di errore. Così come noi, a parte l’autorità dei Veda, non abbiamo altre prove per dimostrare che ci sia vita su altri pianeti, anche gli scienziati moderni non hanno prove certe del contrario. Certamente su altri pianeti le circostanze di vita impedirebbero l’esistenza a esseri forniti del nostro tipo di organismo, ma perché non potrebbero esistere esseri che posseggano altri tipi di organismi?

D: Ma siamo andati sulla Luna e non abbiamo trovato nulla e nessuno.

R: Ammesso che sulla Luna l’uomo ci sia andato veramente, non potrebbe essere che esistano esseri o oggetti che i nostri occhi non possano percepire? Il nostro senso della vista è imperfetto, il suo raggio di azione è limitato e non riesce a percepire che una gamma di oggetti abbastanza circoscritta. In altre parole, non ci sentiamo di condividere quell’atteggiamento tipicamente materialista per cui la vita debba manifestarsi come lo ha fatto sul nostro pianeta, oppure non è tale. Noi non potremmo vivere nei mari come fanno i pesci, che vivono anche se hanno organismi tanto diversi dai nostri; lo stesso può essere detto per gli uccelli, che stanno nei cieli. Esistono addirittura esseri che non possiamo percepire affatto, come i batteri, e non per questo non esistono.

Tenendo conto della natura limitata dei nostri sensi e della nostra intelligenza, se vogliamo ottenere conoscenza reale devono essere usati ogni volta sensi adatti. Certe cose sono conoscibili grazie alla vista, altre attraverso l’olfatto, per altre ancora deve essere utilizzato l’udito, per altre è necessario l’esercizio mentale o razionale. E altre grazie all’uso di una ragionevole fede.

D: Vorremmo sapere se esiste solo l’universo in cui viviamo o se invece ne esistono anche altri.

R: La Brahma-samhita (5.40) sostiene che esistono numerosissimi universi, ognuno con caratteristiche peculiari. Questo in cui viviamo, pur così grande, è uno dei più piccoli.

L’altra creazione: i corpi materiali
D: Nel contesto del processo creativo, come si inserisce il corpo di cui siamo forniti? Qual è la sua funzione nell’ordine cosmico?

R: La stessa domanda è stata posta da Arjuna a Krishna circa cinquemila anni fa, durante il dialogo poi conosciuto come la Bhagavad-gita. Al primo verso del tredicesimo sutra, infatti, chiede di ascoltare una descrizione dei diversi enti che compongono la realtà di cui abbiamo esperienza, fra cui il corpo. Riguardo all’ultimo punto, Sri Krishna risponde così:

“Questo corpo… è chiamato il campo, e colui che lo conosce è chiamato il conoscitore del corpo.”
Bhagavad-gita 13.1

Nel verso ci sono due termini: ksetra e ksetrajna. Il primo si riferisce al corpo che viene chiamato “il campo”, perché è il luogo dove per un certo periodo di tempo la jiva è destinata ad agire. Ksetrajna si riferisce all’anima individuale, e significa “il conoscitore (o padrone, colui che usa) del corpo”. Tuttavia, per non creare equivoci, nel verso seguente Krishna puntualizza che Lui solo è il supremo Ksetrajna, e non solo del nostro ma di tutti gli altri. Infatti il nostro cosiddetto predominio sul campo del corpo è effimero, in quanto presto saremo costretti ad abbandonarlo. Nel settimo verso, poi, Krishna elenca e descrive gli elementi grossolani e sottili che compongono il corpo materiale.

Questa nostra macchina è il mezzo che l’anima possiede per agire e cercare di controllare e godere. E a meno che non riesca a controllare l’azione violenta dei sensi grazie all’esercizio di una intelligenza purificata e a riconoscere che egli non è il vero ksetrajna del corpo, la jiva è destinata a perdere la preziosa opportunità che la forma umana gli concede e a ridiscendere nelle forme inferiori di vita. Dovrà ripetutamente patire la nascita, la malattia, la vecchiaia e la morte.

Quali e quante specie viventi esistono nell’universo?
D: Le forme di vita che popolano gli universi sono uguali per tutti o variano di universo in universo?

R: Ogni universo ha specie di vita diverse dall’altro.

D: Quali e quanti sono i tipi di vita che popolano il nostro?

R: I Veda ci offrono una suddivisione precisa. Sono 8.400.000, divise in questo modo:

900.000 specie acquatiche,
2.000.000 specie vegetali,
1.100.000 specie d’insetti e rettili,
1.000.000 specie d’uccelli,
3.000.000 specie di mammiferi,
400.000 specie umane.

D: Ci piacerebbe ascoltare una descrizione più particolareggiata possibile delle caratteristiche che le contraddistinguono. Quell’ordine è casuale o c’è una ragione?

R: La graduatoria è compilata dai Veda secondo il grado di perfezionamento della coscienza. Le specie che vivono nel silenzio degli oceani sono ritenute le meno evolute, proprio perché hanno scarse probabilità di giungere a contatto con qualche sorgente di energia spirituale. Le specie vegetali almeno hanno una pur remota possibilità di percepire qualcosa, essendo in contatto costante con l’umanità. Le altre specie, insetti, rettili, uccelli e mammiferi sono rispettivamente ancora più avanzati, più vicini alla specie umana.

D: Parlaci delle caratteristiche della forma umana.

R: Tra tutte, la forma umana, la nostra, è quella che permette la maggiore riflessione sulle problematiche dell’esistenza e di porre rimedio all’angoscia dell’errore e dell’ignoranza.

Come abbiamo già spiegato, in questi pianeti mediani l’uomo affronta esperienze di vita in cui trova quantità abbastanza bilanciate tra felicità e sofferenza; e per questo è possibile avere esperienze vivide sia della gioia che della frustrazione. Potendole guardare in contemporanea e anche confrontarle, è facile giungere a conclusioni che facilitino il nostro avanzamento spirituale. Immaginate cosa possa essere vivere su dei pianeti dove tutto è meraviglioso, la vita è lunga e priva di malattie fisiche e di ansie mentali, dove ci sono donne stupende, dove non esistono guerre, pestilenze e disastri naturali; insomma, dove tutto è fin troppo bello. In una situazione del genere, dove si può trovare la forza di capire che il mondo materiale non è la nostra dimora naturale? che tutto in realtà è sofferenza? E’ più che comprensibile che la jiva rischi di identificarsi ancora di più in quella fatata situazione, finché all’improvviso la morte non arriva e non la strappa via ai suoi sogni rosa. Troppa gratificazione dei sensi è sconsigliabile: trascina via dalla realtà.

Oppure immaginate una persona immersa nella sofferenza più profonda, nel disagio più abissale. E’ naturale che impieghi la maggior parte del suo tempo e della sua attenzione per risolvere i suoi problemi materiali. Dove trova costui la tranquillità per indagare sulle problematiche interiori?

La situazione mediana è ragionevolmente la più indicata, tanto che nei Veda è detto che persino gli abitanti dei pianeti superiori talvolta aspirano a diventare uomini, in special modo a nascere su questo pianeta, che tra l’altro è specialmente benedetto dalla venuta di particolari incarnazioni divine, come quella di Caitanya Mahaprabhu.

D: Una delle più grandi battaglie combattute della società moderna è quella contro il razzismo, che vede contrapposte diverse etnie. Se l’uomo si divide e dice: “io sono bianco e tu nero, e dunque ti sono superiore”, “io vengo dal nord e tu dal sud, dunque ti sono superiore”, “io sono ricco e tu no, dunque ti sono superiore”, automaticamente si creano differenze. Dunque contrasti ed infine inimicizie. I Veda dicono che ci sono 400.000 tipi di forme umane. Non può la conoscenza di ciò causare più problemi di quanti non ne risolva?

R: Differenze fra i vari tipi di uomini, al di là di ogni dubbio, esistono. E non è vero che sono le barriere culturali che gli uomini hanno eretto nel corso della storia a fare le differenze. In realtà gli uomini nascono già diversi, mentre uomini simili tra di loro tendono a nascere in certi luoghi e a rafforzare le loro similitudini grazie alla vicinanza reciproca. Ma questa tesi non intende giustificare razzismi o violenze. Una cosa differente non deve necessariamente essere superiore o inferiore: è semplicemente diversa, e deve sempre esserci rispetto tra le persone.

L’uomo è assolutamente uguale soltanto dal punto di vista spirituale. Al di là del corpo c’è una jiva, una scintilla di energia spirituale che non ha nulla a che vedere con il corpo materiale: davanti a Dio tutti, neri, gialli e bianchi, belli e brutti, ricchi e poveri, intelligenti e stupidi, uomini e donne, deva e insetti, uccelli e mammiferi, sono uguali. Le differenze esistono solo a livello fisico e non hanno nulla a che vedere con lo spirito. L’unico modo per risolvere il problema del razzismo, dunque, è trascendere l’identificazione con il corpo. Altrimenti come si può convincere la gente di una uguaglianza che di fatto non c’è?

Realtà della vita materialistica; karma e samsara
D: Noi spesso pensiamo della vita in termini quasi poetici, in forza dei desideri che vogliamo realizzare. Ma i Veda sembrano averne una visione ben diversa.

R: Nel quindicesimo capitolo della Bhagavad-gita, troviamo un’immagine alquanto suggestiva della realtà materiale:

“(La Suprema Personalità di Dio disse:) E’ detto che c’è un albero di banyano imperituro che ha le radici che si dirigono verso l’alto e i rami verso il basso… I rami di quest’albero si estendono in tutte le direzione, nutriti dai tre modi della natura materiale. I ramoscelli sono gli oggetti dei sensi.”
Bhagavad-gita 15.1 e 2

Qui il mondo materiale è descritto come un albero le cui radici vanno verso l’alto e i rami verso il basso. Nella nostra vita abbiamo esperienza di una tale cosa solo se guardiamo dalla riva di un fiume il riflesso dell’albero nell’acqua; allora possiamo vedere un albero rovesciato. I rami vanno giù, le radici in su.

Cosa ci vuole dire Krishna? Che i mondi e le esperienze vissute sono un riflesso del mondo e della natura spirituale. Non hanno realtà oggettiva, non sono che l’ombra della verità. In un’ombra non c’è la sostanzialità della realtà da cui proviene, ma da essa possiamo capire che da qualche parte una sorgente ci deve pur essere. In qualche luogo possiamo trovare la sostanza, o la realtà. Srila Prabhupada usa l’esempio del deserto e dell’acqua: nel deserto non c’è acqua, ma il miraggio (che è una proiezione della nostra mente) suggerisce che da qualche parte l’acqua deve pur esistere, altrimenti non avremmo neanche potuto desiderarla. Noi cerchiamo la felicità ma in questo mondo materiale non c’è: la vera acqua della felicità sta nel mondo spirituale.

I Veda e gli scritti di Bhaktivedanta Svami Prabhupada contengono vivide descrizioni della verità sulla vita materiale. La Srimad-Bhagavatam (5.5.4 fino a 6) dice:

“La gente impazzisce per la gratificazione dei sensi e non sa che il corpo nel quale abitano, che è pieno (o è sorgente) di miserie, è il risultato delle azioni interessate compiute nel passato. Oltre che essere temporaneo, questo involucro ci procura problemi in continuazione. Dunque agire per la gratificazione dei sensi non è consigliato. La nostra vita è un fallimento fintanto che non si cominciano a porre domande sulla nostra vera identità e fintanto che non la si conosce si deve lavorare per ottenere un qualche beneficio. E finchè si è sprofondati nella grossolana coscienza della gratificazione dei sensi si deve trasmigrare da un corpo a un altro…”

Il desiderio per le cose di questo mondo è una totale illusione in quanto nasce da un errore di base, che è quello di credersi un corpo materiale.

Tutto ciò che è generato da questa svista di fondo non può essere che un ulteriore sbaglio e conduce solo alla disperazione più nera. Qualsiasi cosa che potremmo conquistare in questo mondo è destinata a finire, a svanire proprio come il miraggio di cui parlava Prabhupada. A prima vista tutto sembra invitante perché bello, fornito di colori sgargianti, di idee eccitanti, ma quando si prova ad afferrare un qualsiasi oggetto, a farlo proprio, ci si accorge che non è realtà ma solo un’illusione, un suggerimento diabolico dei sensi. Un miraggio non può placare la sete, anzi la fa aumentare. Allo stesso modo anche il nostro desiderio di felicità, di conoscenza, di sentirsi vivi ed esistenti, non può che aumentare man mano che passa il tempo trascorso in questo mondo di materia. Solo quando ci si riaffaccia alla vera realtà spirituale si può ritrovare il vero essere. Le cose che noi uomini cerchiamo non sono in questo mondo: qui troviamo solo klesa, sofferenze.

D: Ci sono varie classificazioni per quanto riguarda le sofferenze a cui siamo assoggettati?

R: La Sri Upadesamrta, scritta da Rupa Gosvami e tradotta e commentata da Srila Prabhupada, evidenzia le seguenti tipologie di disagi, che sono:

1. adhydaivika-klesa, sofferenze causate dagli agenti atmosferici, come le tempeste, i terremoti, le siccità, i maremoti, il caldo o il freddo eccessivi e via dicendo.

2. adhibautika-klesa, sofferenze causate da altri esseri viventi, quali possono essere gli insetti, i rettili, gli altri uomini.

3. adhyatmika-klesa, sofferenze causate dal proprio corpo o dalla propria mente, come le malattie fisiche e psicologiche, la vecchiaia eccetera.

Poi ci sono altre quattro klesa: la nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte.

Dal momento in cui tutti siamo certi di dover nascere, invecchiare, ammalarsi e morire, quale possibilità abbiamo di essere felici? L’unica contentezza è quella dello stolto, la “felicità dello struzzo”. Prabhupada ci offre un esempio divertente: quando lo struzzo è inseguito dal cacciatore e si rende conto che non ha più scampo, infila la testa nella sabbia e non vedendo più il pericolo crede che sia passato. In realtà la situazione non dipende dalla percezione sensoriale, ma è oggettivamente reale. Allo stesso modo l’ateo crede che, migliorando la sua condizione materiale e non vedendo più le numerose sofferenze attorno a sé, queste siano state annullate. Ma non è così. Presto ne saremo sopraffatti e, ultima fra tutte, la morte inesorabile porterà via tutte le persone e gli oggetti a cui l’anima si era tanto legata.

Le leggi del karma sono micidiali; ci costringono a prendere nuovi corpi all’interno di una ruota chiamata samsara, un ciclo di morti e rinascite senza fine.

D: Parliamo allora della reincarnazione, del karma e del samsara. Definiamo questi termini.

R: Come abbiamo già detto, noi siamo di natura spirituale, perciò eterni. Noi, l’anima, non siamo soggetti alla cessazione della vita. La morte non è altro che il momento in cui l’anima esce dal corpo materiale. Essendo eterna e non potendo cadere vittima dell’azione del Tempo, dove va la scintilla personale che noi chiamiamo jiva?

“L’anima che ha un corpo passa continuamente, in questo stesso corpo, dall’infanzia all’adolescenza e alla vecchiaia; in modo analogo al momento della morte ne prende un altro…”
Bhagavad-gita 2.13

La reincarnazione è dunque il fenomeno per il quale l’anima è costretta ad accettare un nuovo involucro fisico.

D: Ma non si riesce a capire la ragione per cui dovrebbe voler prenderne un altro, visto gli evidenti disagi a cui sa di andare incontro.

R: Quando i desideri materiali non sono soddisfatti, le leggi della natura forniscono successive possibilità per giungere alla sazietà totale, cosa che non accadrà mai in quanto una scintilla di energia spirituale ha bisogno di ben altro per appagarsi totalmente che delle banali ed effimere soddisfazioni materiali. L’anima conosce ciò a cui va incontro, nondimeno non riesce a fronteggiare l’attacco violento dei desideri, che la sconfiggono e la costringono a riprendere nascita.

D: Come è regolato il meccanismo del passaggio ad altre destinazioni?

R: L’anima passa in nuovi corpi secondo una logica precisa. Ciò che determina il fatto stesso di andare a occupare dei corpi materiali è la voglia sfrenata di controllare e godere da cui è ossessionata. Secondo questo principio, sarà lo stato di coscienza stesso a determinare il tipo di corpo che andrà ad occupare. La Bhagavad-gita lo conferma:

“In qualsiasi stato di coscienza si ritrovi nel momento in cui abbandona il corpo, quello (stato d’essere) otterrà senza possibilità di errore, o figlio di Kunti.”
Bhagavad-gita 8.6

In altre parole, se al momento della morte la nostra coscienza sarà di tipo animalesco, senza dubbio otterremo un corpo animale.

“… al momento della morte i pensieri accumulati durante il corso della vita influenzano la coscienza. Così questa nostra vita crea la prossima.”
Bhagavad-gita 8.6 commento

E’ certo che la coscienza finale è determinata dalle azioni compiute durante la vita. Non possiamo neanche per un momento credere che se durante il tempo concessoci in un particolare corpo abbiamo coltivato solo pensieri materialistici, alla fine saremo in grado di pensare a Dio. No, ciò è praticamente impossibile. I nostri ultimi momenti sono generalmente molto traumatici e non si può essere in grado di controllare il flusso dei pensieri e delle emozioni. Se uno vive spiritualmente, alla fine della vita sarà in grado di pensare a Sri Krishna, altrimenti con ogni probabilità nutrirà i pensieri e i rimpianti di questo mondo. E ciò significa che dovrà accettare un altro corpo materiale secondo le leggi del karma.

Karma significa azione, ma significa anche reazione. Ha questo doppio significato perché in questo mondo non è possibile agire senza dover raccogliere le reazioni degli atti. Tre sono i tipi di azioni che possiamo svolgere:
Vedi Sri Isopanisad, mantra 2, commento

1. karma, che sono quelle azioni materiali guidate e sanzionate dalle scritture, per cui il risultato è positivo. Chi agisce in questo mondo seguendo i consigli delle scritture si eleva sempre di più, ottenendo i pianeti celesti e ultimamente la liberazione.

2. vikarma, che non tengono conto delle scritture, svolte sulla base di una pseudo-libertà e che ultimamente conducono alle forme di vita più degradate.

3. akarma, che non provocano alcun risultato materiale, per cui gradualmente il cuore del praticante si libera dalle contaminazioni materiali. Il risultato è che, non avendo più “karma da pagare”, trascendiamo il meccanismo della reincarnazione e torniamo al nostro mondo d’origine.

Riassumendo, seguendo le istruzioni delle scritture riguardo all’etica del comportamento, ci eleviamo a forme di vita superiori; facendo di testa nostra ci degradiamo sempre di più; servendo il Signore con amore e devozione (bhakti) accediamo ai mondi spirituali dove possiamo rimanere eternamente in compagnia di Krishna.

Al di la di queste divisioni, comunque, per karma s’intende qualsiasi azione o reazione materiale, sia essa buona (karma) o cattiva (vikarma).

L’assioma è: per ogni azione materiale corrisponde una reazione che ci tiene prigionieri all’interno del samsara. Queste reazioni ci costringono ad assumere altri corpi materiali, in una catena ininterrotta che si spezza solo allorquando adottiamo azioni devozionali che hanno la caratteristica di non produrre reazioni materiali (akarma).

D: Cos’è il samsara?

R: Samsara significa vagare, sottoporsi a trasmigrazione, a successione di mutamenti. E’ il ciclo delle morti e delle rinascite, per cui la jiva vaga di corpo in corpo, di pianeta in pianeta, di universo in universo. Nessuno può uscire da questa ruota, da questo cerchio vizioso: soltanto colui che ascende a un gradino di coscienza superiore attraverso la discipline del bhakti-yoga.

La spinta verso la liberazione
D: Ad un certo punto della sua esistenza ognuno di noi sente il bisogno di ricongiungersi a Dio. Cos’è questa spinta e da cosa è causata?

R: Nella Srimad-Bhagavatam (3.26.16) c’è un verso molto interessante che dice:

“L’influenza (o la presenza) della Suprema Personalità di Dio si può avvertire nel Fattore Tempo, che causa la paura della morte; (questo timore è) dovuto al falso ego dell’anima illusa che è giunta in contatto con la natura materiale.”

In altre parole, la paura della morte è dovuta al falso ego, perché è causata dal fatto di ignorare la nostra natura eterna. Dunque, quando l’anima preda dell’illusione entra in contatto con la materia inizia ad attaccarsi alle cose che conquista, spesso con grande fatica. Quando si rende conto che è solo questione di tempo e che poi tutto gli sarà portato via (e anche che questo può accadere ad ogni istante), sente la paura che gli attanaglia il cuore e che lo rende infelice, preda dell’ansia. Sa inoltre che non è neanche necessario attendere la morte per perdere ogni cosa. Ed è proprio il Fattore Tempo che agisce da supremo distruttore.

Può sembrare una cosa crudele e cinica. Ma in realtà il tutto è la manifestazione della misericordia particolare del Signore, che ci aiuta a diventare coscienti di come stanno veramente le cose. Sequestrandoci in modo definitivo i beni che abbiamo ammassato, ci offre la ragione di desiderare, di sviluppare un forte desiderio di tornare a casa nostra, a Vaikuntha, dove nulla mai si distrugge, dove nulla scivola via in modo tanto drammatico. In questa maniera Krishna, il Paramatma che è nel nostro cuore, ci prepara all’impegno per il processo della liberazione, il bhakti-yoga.

Ma questo è l’argomento del prossimo capitolo.

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