Maha-bharata in Italiano, edizione 2022 – (Adi Parva) Parte 6

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Il complotto
Dopo qualche tempo, Dhritarastra investì Yudhisthira della carica di principe ereditario.
Ovviamente ciò non poteva rendere il Re particolarmente felice, in quanto avrebbe preferito che a succedergli fosse stato il figlio Duryodhana; ma certamente non poteva opporsi alle millenarie tradizioni vediche. Infatti, non avendo egli potuto governare a causa della propria cecità, Duryodhana aveva perduto il diritto automatico al trono. In quella circostanza il Re sarebbe dovuto diventare il primogenito fra i suoi figli e quelli di Pandu. Yudhisthira era nato un anno prima, dunque aveva pieno diritto al trono. Duryodhana moriva dall’invidia e dal dolore.
In quel periodo Bhima e Duryodhana lasciarono Hastinapura per andare a Dvaraka, dove presero lezioni sull’uso della mazza da Balarama, il fratello di Krishna, perfezionando ulteriormente la loro destrezza guerriera.
E sempre nello stesso periodo anche Arjuna ricevette ulteriori istruzioni da Drona, il quale gli diede l’opportunità di migliorarsi con l’arco.
Un giorno il Pandava chiese al maestro:
“C’è qualcuno su questa Terra che può vincermi in duello?”
“Sì, c’è,” rispose Drona. “E’ Krishna, della razza dei Vrishni. Egli non è un uomo come tutti gli altri, la sua origine è divina e nessuno potrà mai sconfiggerlo. Devi stringere con lui la più solida delle amicizie e sotto la sua protezione anche tu diventerai invincibile.”

Trascorse un anno relativamente tranquillo, durante il quale l’amore del popolo verso i Pandava cresceva, così come lievitava l’odio di Duryodhana. Un giorno, allo stremo della sopportazione, fece chiamare Sakuni per parlargli.
“Non riesco più a tollerare la vista di questi maledetti che prosperano ogni giorno di più. Il popolo è dalla loro parte, l’esercito anche, il patriarca Bhishma nutre per loro un grande affetto, e Drona apprezza Arjuna al punto che sembra che esista solo lui. Persino mio padre non ha mai nascosto l’affetto per questi diabolici cugini. Sono stati abili, non c’è che dire, a guadagnarsi la simpatia di tutti.”
“Io te lo dissi tempo fa,” ribatté Sakuni, “che un nemico va distrutto subito, prima che abbia la possibilità di diventare forte attraverso alleanze. Duryodhana, per il bene tuo e del casato a cui appartieni, devi distruggere i Pandava!”
“Lo so bene che questa è l’unica cosa da farsi, ma abbiamo già provato ed abbiamo fallito. Questa volta dovremo fare le cose con maggiore accortezza perché non possiamo permetterci di sbagliare ancora, o rischieremo di perdere i nostri alleati.”
Così con Sakuni, Karna e Dusshasana, Duryodhana progettò un terribile complotto per uccidere i Pandava.
Il primo passo fu di convincere il padre a mandare i nipoti a Varanavata per un periodo di riposo; la cosa non fu difficile, in quanto Duryodhana riusciva quasi sempre ad ottenere da quest’ultimo qualsiasi cosa. Dal canto suo Dhritarastra sospettò che il figlio stesse complottando qualcosa di grave. E tuttavia non volle ostacolarlo. Sentiva questa sua rivalità nei confronti dei Pandava diventare ogni giorno più prepotente e pur di non vederlo soffrire si augurava che Duryodhana riuscisse ad ottenere ciò che desiderava in maniera non violenta.
Ottenuto il consenso del padre, Duryodhana fece costruire una grande casa con materiali tutti altamente infiammabili e mandò sul posto Purochana, suo fedele amico, con l’intenzione di farvi appiccare fuoco appena se ne fosse presentata l’occasione.
A Varanavata i Pandava correvano un pericolo mortale.

Gli avvenimenti di Varanavata
Giunse il giorno della partenza.
Anche Vidura aveva intuito che c’era qualcosa di strano in quel viaggio organizzato dai nipoti, e che i figli di Pandu potevano essere in pericolo. Avendo così indagato sui retroscena dell’organizzazione del viaggio, era venuto a conoscenza del complotto criminale, ma aveva preferito non mandare tutto a monte in quanto sarebbe stato perfettamente inutile: Duryodhana avrebbe sicuramente atteso un’altra occasione per eliminare i Pandava. Perciò durante il commiato, parlando un dialetto che solo pochi conoscevano, rivolse oscuri messaggi di avvertimento a Yudhisthira, il quale capì e gli sorrise con riconoscenza. Accompagnati da Kunti, i Pandava partirono.
Già messi all’erta da Vidura, non ci misero molto ad accorgersi di come era stata costruita la casa, per cui decisero di non fidarsi di nessuno e di stare sempre all’erta. Durante il giorno e la notte c’era sempre uno di loro che montava la guardia, e ciò rendeva impossibile a Purochana di appiccare il fuoco. Ma quella situazione non poteva durare all’infinito.
“Non possiamo continuare così per sempre,” rifletté a voce alta Yudhisthira un giorno, “dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo scegliere se affrontare apertamente i nostri cugini o nasconderci in attesa di momenti migliori.”
Bhima era del parere che non avevano bisogno di nascondersi, che potevano con la loro forza fisica attaccare e distruggere i malvagi, ma in realtà non era così facile. Era vero che essi sarebbero stati in grado di sconfiggere in duello i cugini, ma costoro non erano soli, avevano dalla loro parte gente come Bhishma, Drona, Kripa, Karna, Asvatthama e molti altri alleati che in caso di conflitto si sarebbero uniti a loro. Certamente quasi tutte quelle persone erano più legate sentimentalmente ai cinque fratelli che ai figli di Dhritarastra, ma in caso di conflitto non avrebbero potuto aiutarli militarmente, in quanto debitori verso la corte, nella quale avevano vissuto agiatamente e ricevuto ogni sorta d’onori per tanti anni. In caso di guerra avrebbero dovuto combattere contro i Pandava e ciò precludeva a questi ultimi ogni possibilità di vittoria. Di fatto tutti li apprezzavano, ma nessuno avrebbe potuto aiutarli concretamente.
La situazione era più complicata di quanto sembrava. Erano indecisi sul da farsi.
L’idea giusta arrivò dal buon vecchio zio Vidura. Incaricato in gran segreto da quest’ultimo, un minatore fidato giunse a Varanavata, dove fu accolto con calore dai Pandava.
“Mahatma Vidura mi ha mandato da voi,” disse, “e vuole sapere come state.”
“Stiamo bene, ma come puoi vedere siamo minacciati da un grave pericolo. Questa casa può bruciare in pochi istanti e noi corriamo il rischio di ardere vivi tutti. Viviamo in uno stato di costante allerta. E poi, cosa fare per risolvere definitivamente la minaccia che Duryodhana rappresenta per noi?”
“Vidura mi ha spiegato la situazione,” rispose il minatore, “e mi manda a dire di non preoccuparvi. Egli vi consiglia di nascondervi per un certo periodo, in modo che possiate prepararvi nel caso di una guerra. Appiccate voi stessi fuoco alla casa, in modo che tutti pensino che siete morti mentre invece starete fuggendo nelle foreste.”
I Pandava accolsero il consiglio con entusiasmo.

In pochi giorni di duro lavoro, l’esperto scavatore riuscì a costruire un tunnel che conduceva in una fitta boscaglia appena fuori la città. Sarebbero cominciati tempi duri, ma almeno sotto un certo aspetto le cose sarebbero migliorate: con quella mossa Duryodhana si era definitivamente messo allo scoperto.
In una notte senza luna, in cui gli attendenti a insaputa dei Pandava avevano ospitato una donna con cinque figli, essi appiccarono il fuoco alla loro casa e a quella dove in quel momento Purochana dormiva. E mentre le fiamme si levavano altissime e incontrollabili, i Pandava con la madre fuggirono lungo il tunnel e in pochi minuti si ritrovarono all’aperto, nella foresta, in salvo.
Il piano riuscì in pieno, nessuno sospettò niente.

Ad Hastinapura tutti versarono lacrime amare per la morte dei loro cari principi. Anche Vidura e Bhishma, pur sapendo la verità, si videro costretti a piangere e a disperarsi in modo da non destare sospetti. Dhritarastra, il Re cieco nel corpo e nello spirito, che aveva capito che non era stata una disgrazia, da una parte fu sinceramente dispiaciuto, ma dall’altra era contento perché in quel modo Duryodhana ora avrebbe potuto ereditare il potere e ritrovare la serenità persa a causa della sua sfrenata invidia.

I fratelli Rakshasa
Ma ritorniamo ai Pandava.
La fuga dei cinque fratelli era tanto affannosa che Kunti non riusciva a tenere il passo. Bhima allora prese la madre sulle spalle di modo che poterono ricominciare a correre con maggiore velocità. Percorsero molta strada, quella notte, in quella fitta foresta popolata solo da animali della giungla e da Rakshasa.
Qualche ora dopo, quando ritennero di essere oramai lontani da Varanavata, si fermarono per riposare.
“Adesso siamo al sicuro,” disse Bhima, “è inutile continuare a correre nella notte. E poi nostra madre è stanca e ha bisogno di dormire. E anche voi dovete riprendere fiato. Vi preparerò dei giacigli cosicché potrete dormire comodamente. Io non sono stanco, farò la guardia.”
Da quando era iniziata quell’avventura, Bhima era sempre stato stranamente tranquillo e non aveva commentato granché gli sviluppi della loro situazione. Anche in quegli ultimi giorni aveva parlato poco e i fratelli lo avevano colto spesso soprappensiero. Ma in quel momento alla vista della madre che si apprestava a dormire all’aperto in una foresta selvaggia, riparata solo da un albero, non riuscì più a contenere la rabbia.
“Ma come potete essere così calmi? Come riuscite a tollerare una situazione del genere? Non vedete come siamo ridotti? Nostra madre, che merita tutti gli onori, è costretta a correre nella foresta di notte per fuggire da un nemico, come se non avesse nessuno in grado di proteggerla. Noi stessi dobbiamo dormire in terra su un giaciglio di erba alla stregua di mendicanti. Ma perché stiamo fuggendo come se avessimo di fronte un nemico che non siamo in grado di battere? Basterebbe poco per risolvere una volta per tutte il problema causato dall’empio figlio di Dhritarastra: prendiamo le nostre armi e corriamo ad Hastinapura; affrontiamo Duryodhana e i suoi degni compagni faccia a faccia e facciamola finita con loro. Anzi, se voi non volete farlo, farò tutto io da solo. Con la sola forza delle mie braccia distruggerò i maledetti cugini e i loro alleati.”
“Non dire queste cose, Bhima,” rispose Yudhisthira. “Non possiamo rispondere al malvagio con la malvagità. Dobbiamo cercare di fare qualsiasi cosa per evitare lo scontro armato. Pensaci bene cosa significherebbe una guerra: i nostri parenti, i nostri amici, i nostri conoscenti, tutti verrebbero coinvolti e noi contro di loro non possiamo combattere. Non possiamo uccidere i nostri padri, zii, cugini, nonni, maestri, amici. Sii paziente. La guerra deve essere la soluzione estrema: quando veramente avremo realizzato che non esiste altra via d’uscita, allora combatteremo contro di loro. Solo quando vedremo che non ci resta altro da fare. Solo in quel caso non avremo trasgredito alle leggi divine.”
Arjuna, Nakula e Sahadeva si ritrovarono d’accordo con il fratello maggiore. Bhima insistette ancora, valendosi di altri numerosi argomenti, tutti avvalorati da evidenze scritturali, ma non riuscì a convincerli. I suoi fratelli avrebbero fatto ogni cosa pur di evitare una sanguinosa guerra.
Si addormentarono.

Solo Bhima rimase sveglio, seduto su di un masso.
Mentre guardava la madre e i fratelli dormire distesi sul terreno, una furia incontrollabile gli bruciava il cuore, così violenta che si mordeva continuamente le labbra al punto da farle sanguinare. Avrebbe dato chissà cosa pur di afferrare la sua mazza e correre ad Hastinapura a massacrare i nemici, ma non poteva disobbedire a Yudhisthira, che era il fratello maggiore e che rispettava e amava sopra ogni altra cosa. Tuttavia quello che aveva imposto al suo corpo non era riuscito a farlo anche al cuore, sempre convinto di volere solo una cosa: la distruzione di tutti i figli di Dhritarastra. E nella sua mente non potevano esserci altro che pensieri di vendetta.

Era notte fonda.
Non lontano dal loro accampamento, vivevano un Rakshasa di nome Hidimba e la sorella Hidimbi. Da anni i due spargevano morte e dolore e gli abitanti di quella regione tremavano solo a sentirne parlare. E accadde che, nonostante la lontananza, Hidimba sentì la loro presenza.
“Sento odore di carne umana,” disse alla sorella, “ci devono essere degli uomini non lontano da noi. Saranno degli stranieri. Non sanno che questa è la mia foresta? Che folli sono stati ad avventurarsi in un posto come questo senza conoscerlo. Sorella, vai lì subito. Ho fame: uccidili e portami le loro carni.”
Prontamente Hidimbi obbedì e corse nella direzione che il fratello le aveva indicato, finché, giunta sul posto, vide cinque figure che dormivano e una che montava la guardia seduta su di un masso: era un uomo dallo sguardo furibondo, che stringeva i pugni per la rabbia e mormorava terribile minacce. Osservandolo meglio, notò il portamento nobile, il corpo possente e i lineamenti magnifici. In quel momento le frecce di Kamadeva colpirono il cuore della Rakshasi che abbandonò qualsiasi pensiero omicida.
“Come si può ammazzare un uomo così bello e nobile?” pensò. “Non riuscirò mai a farlo. Mi piace, mi ha stregato il cuore, e non riesco neanche a pensare di doverlo eliminare. Al contrario, userò le mie arti per convincerlo ad accettarmi come moglie e ad amarmi.”
Rapita dall’amore per Bhima dimenticò il demoniaco fratello che intanto diventava sempre più impaziente di gustarsi il prelibato pranzetto procuratogli da Hidimbi. Così, quando dopo i primi attimi di sbandamento costei si ricordò della sua missione, le crollò il mondo addosso.
“Se non gli obbedisco, mio fratello è capace di ucciderci tutti.”
Per un po’ fu torturata dall’incertezza, poi il forte sentimento d’amore che aveva inesorabilmente stregato il suo cuore prevalse sulla paura, per cui assunte le fattezze di una avvenente ragazza, uscì dal nascondiglio e andò incontro a Bhima.
Quando questi la vide sospettò subito che la fanciulla nascondeva qualcosa di strano.
“Chi sei?” le chiese. “Cosa fa una ragazza giovane come te in una foresta infestata da animali feroci e da Rakshasa? Sei tu stessa un Rakshasa? Si sa che questi esseri demoniaci possono prendere qualsiasi fattezza, anche quelle di una donna giovane e carina.”
Lei non tentò neanche di mentire; sapeva che aveva poco tempo per salvarli dal crudele fratello.
“Io sono Hidimbi, la sorella del Rakshasa Hidimba. Mio fratello ha sentito la vostra presenza e mi ha mandata qui per uccidervi, così da potersi sfamare. Ma io, dopo averti visto, non me la sono sentita. Voi correte un pericolo mortale. Vi prego fuggite immediatamente. E’ già parecchio tempo che sono partita, perciò fra poco mio fratello comincerà ad insospettirsi del ritardo e verrà di persona.”
Bhima capì il sentimento che spingeva la Rakshasi a metterli in guardia, ma non provò alcuna apprensione.
“Se tuo fratello vuole venire a combattere, che venga pure,” rispose scrollando le spalle. “E se vuole cibarsi dei nostri corpi, se li guadagni. Mia madre e i miei fratelli hanno camminato per tutta la notte e sono stanchi; di certo non li sveglierò per un Rakshasa.”
“Mio fratello ha la forza di centinaia di elefanti,” rispose la ragazza alquanto sorpresa da quelle parole, “e nessuno mai è riuscito a vincerlo in duello. Ti prego, tu non sai ciò che dici: fuggite senza perdere altro tempo.”
Bhima non restò per nulla impressionato dalla descrizione della forza del Rakshasa e continuò a dirle che non aveva alcuna intenzione di disturbare i suoi familiari.
Nel frattempo l’affamato Hidimba cominciava a chiedersi la ragione di tanto ritardo e a scalpitare per l’impazienza; dopo un po’ pensò che fosse meglio andare a vedere di persona cosa stava succedendo. Ci si può immaginare la rabbia e lo stupore del demone quando, giunto sul posto, trovò la sorella che parlava allo sconosciuto, e si avvicinò per sentire ciò che diceva. Quando la sentì metterlo in guardia del pericolo che correvano, un violento colpo d’ira gli offuscò la vista e gridò con furia inaudita:
“Vi ucciderò tutti!”
E si lanciò contro di loro. Vedendo il Rakshasa sopraggiungere minaccioso, Bhima si alzò di scatto e gli corse incontro. La collisione dei due corpi fu così violenta che produsse un rumore forte come un tuono. La lotta diventò subito furibonda: una nuvola di polvere circondava i due avversari che si battevano con ogni arma che trovavano a disposizione, alberi e rocce compresi. Il clamore di quella battaglia svegliò i fratelli e la madre che si resero subito conto della situazione. Arjuna voleva intervenire, ma i due corpi erano così vicini l’uno all’altro e si muovevano con tale rapidità che sarebbe stato facile sbagliare bersaglio, per cui decise di lasciar fare a Bhima.
Fu solo dopo diverse ore che il terribile duello si risolse a favore del Pandava. Afferrato il Rakshasa in una stretta ferrea, facendo leva sul suo possente ginocchio gli spinse un braccio sul collo e l’altro sulle gambe, spezzandogli la spina dorsale. Hidimba lanciò un grido spaventoso e perì. Era l’alba, il sorgere del sole segnò la fine del combattimento.
Poiché oramai la notte era trascorsa, i Pandava si prepararono a lasciare quel posto e misero insieme le cose che avevano portato con loro. La Rakshasi Hidimbi era ancora lì, che guardava Bhima senza dire una parola. E anche quando si furono avviati, lei li seguì, senza parlare. Kunti, che aveva compreso il sentimento della donna, disse al figlio:
“Bhima, quella ragazza ti vuole per marito. E’ stata lei ad aiutarci, andando contro il volere del fratello. Ora non ha nessuno che può proteggerla e credo proprio che tu debba accettarla e contraccambiare i suoi sentimenti.”
“Ma Yudhisthira non è ancora sposato,” ribatté Bhima, “e non è corretto che io lo faccia prima di lui senza il suo consenso. Chiedi dunque al mio fratello maggiore, e se lui non avrà nulla da obiettare, io sposerò questa Rakshasi.”
Yudhisthira diede il suo consenso, e il giorno stesso i due si sposarono e andarono a vivere da soli per un certo periodo.
Dalla loro unione nacque un figlio, Ghatotkacha, che in poco tempo divenne forte come il padre. Dopodiché Bhima salutò la moglie e il figlio e si riunì ai familiari, che ripresero il viaggio.

Ad Ekachakra
A quel punto bisognava scegliere il luogo adatto dove nascondersi. Infatti il periodo tranquillo che aveva seguito l’unione di Bhima con Hidimbi non aveva certo cancellato il grave problema che avvelenava la loro esistenza, e cioè la persecuzione del cugino Duryodhana.
Durante il loro cammino in quella foresta intricata incontrarono Vyasa, il quale consigliò loro di recarsi a Ekachakra, un piccolo paese situato a oriente, abitato da gente pia e religiosa, dove avrebbero potuto visitare numerosi luoghi santi. Seguendo, come sempre, i consigli benefici del saggio, il piccolo gruppo si diresse verso Ekachakra.

Quando furono in vista del paese, Arjuna si preoccupò di come si sarebbero dovuti presentare e di cosa avrebbero dovuto fare.
“Ora dovremo travestirci,” disse. “Non possiamo farci riconoscere, altrimenti Duryodhana manderebbe subito il suo esercito ad eliminarci. E’ meglio non affrontarlo ancora così apertamente.”
“Ci travestiremo da Brahmana poveri,” concluse Yudhisthira, “e cercheremo ospitalità presso qualcuno che possa offrircela. Per quanto riguarda il nostro mantenimento, chiederemo l’elemosina come fanno tutti coloro che appartengono a quest’ordine.”
Così travestiti, i Pandava e la madre entrarono nel paese e cercarono una dimora dove soggiornare; non tardarono a trovarla presso una famiglia di Brahmana semplici e pii, che misero a loro disposizione alcune stanze.

Trascorsero giorni tranquilli.
A parte Bhima che aveva il problema della quantità di cibo sempre troppo scarsa per lui, i Pandava erano contenti e impiegavano il tempo in modo proficuo studiando i testi sacri e andando in questua solo per quel tanto che bastava per la loro sopravvivenza. Ma anche quel periodo di serenità fu ad un certo punto scosso da un dramma che li avrebbe coinvolti.
Accadde che un giorno Kunti udì involontariamente dei lamenti accorati provenienti dalle stanze della famiglia che li ospitava: erano dei pianti così convulsi e disperati che si preoccupò molto e volle conoscerne le cause.
“Cos’è successo di tanto grave? Perché piangete così? Ditemene le ragioni,” chiese gentilmente.
“E’ possibile che non sappiate quale calamità ci sta facendo soffrire? Sono tanti anni che la nostra esistenza è un inferno, e vivere in questa regione è oramai diventato impossibile. Ciò che sta accadendo è terribile,” rispose il Brahmana che stringeva a sé la moglie e i due figli.
A fatica Kunti riuscì a farsi raccontare ciò che rendeva tanto dolorosa la vita dei nuovi amici.
“Tempo fa un forte Rakshasa di nome Baka arrivò a Ekachakra e subito cominciò delle scorribande terribili: entrava nei paesi e ne massacrava gli abitanti, rubando e portando via qualsiasi cosa volesse. Il nostro Re tentò di intervenire, ma avendo capito che questi era troppo forte per lui, non tentò neanche di combattere e, come un codardo, fuggì lontano. A quel punto la situazione era diventata insostenibile: non si sapeva come porre fine alle stragi e alle razzie, quando gli anziani del paese riuscirono a trattare con quel demonio. Alla fine costui ha accettato di cessare le sue azioni nefande, a patto però che ogni settimana una famiglia gli mandi alla caverna in cui vive uno di loro alla guida di un carro colmo di cibo, trainato da otto muli. Come potete immaginare, il Rakshasa mangia tutto, compreso il conducente. Questa settimana tocca alla mia famiglia sacrificare qualcuno, e uno di noi dovrà morire.”
Tanto dolore colpì Kunti che pensò di sdebitarsi con il Brahmana per l’ospitalità ricevuta.
“Per favore, non piangete più,” disse loro Kunti, “non preoccupatevi più per il Rakshasa. Io risolverò il problema che assilla il vostro paese. Mio figlio andrà al vostro posto, e condurrà il carro fino alla caverna di Baka; poi porrà fine a quell’esistenza malvagia.”
Il Brahmana era esterrefatto; da una parte avrebbe voluto aggrapparsi a quello che sembrava uno spiraglio di speranza per sé e per la sua famiglia, ma dall’altra non intendeva mettere a repentaglio la vita del giovane, che pensava fosse un ragazzo comune. Così disse:
“E’ un suicidio, non posso accettare la tua proposta.”
“Mio figlio non corre alcun pericolo,” rispose Kunti. “Tu non sai della sua grande forza, che non conosce rivali. Non temere, non ci sono rischi per lui; al contrario è il Rakshasa a dover avere paura.”
Il Brahmana, convinto da quelle argomentazioni, accettò.
La sera stessa la madre raccontò ogni cosa a Bhima.
“Figlio,” concluse Kunti, “abbiamo un dovere di riconoscenza verso queste persone che ci hanno offerto asilo per così tanto tempo e anche nei confronti della virtuosa gente di questo paese. Voi che siete Kshatriya, guerrieri, avete il dovere di difendere la gente debole e di uccidere tutti coloro che disturbano la pace e la religione. Dunque io credo che dovresti andare dal Rakshasa e distruggerlo. Inoltre, tu sei sempre affamato e il cibo che otteniamo mendicando è sempre così scarso: andando da Baka con il carro potresti sfamarti con ciò che è destinato a lui.”
Bhima non si tirò indietro, anzi accettò quel compito con esultanza. Era felice di avere in tal modo l’opportunità di fare qualcosa per quella famiglia che era sempre stata tanto gentile con loro, e allo stesso tempo si sentiva anche risollevato alla prospettiva di potersi finalmente sfamare in modo soddisfacente.
Partì il giorno stesso.

Ci volle qualche ora di viaggio per giungere sul posto dove si trovava la caverna di Baka. In un primo momento pensò di causare qualche rumore per richiamare il Rakshasa, ma subito ci ripensò.
“Se uccido ora il Rakshasa poi dovrò digiunare interi giorni per purificarmi dal contatto con quell’essere immondo. In questo periodo ho mangiato troppo poco per attendere altro tempo, per cui è meglio che prima mangio e poi lo affronto.”
Il potente Pandava cominciò a mangiare voracemente l’ottimo cibo, provocando con le mandibole forti rumori. Il Rakshasa udì lo strano suono che proveniva dall’esterno e uscì per vedere cosa stesse accadendo. Ciò che gli si prospettò alla vista lo lasciò per un attimo impietrito dalla sorpresa: la vittima, invece di gridare e chiedere pietà come avevano sempre fatto le altre, per nulla preoccupata del pericolo, stava mangiando tutto il suo cibo.
Superata la sorpresa, Baka tuonò contro Bhima e non ottenendo risposta gli si scagliò contro con furia inaudita; ma questi non si scompose e continuò a mangiare finché non ebbe terminato. Poi si alzò e si scatenò.
Al termine della furibonda lotta, il Rakshasa giaceva a terra privo di vita.
Bhima, allora, trascinò il gigantesco corpo fino alle porte del paese e lo lasciò lì, in modo che tutti potessero vederlo. Poi, prima che qualcuno potesse scorgerlo e sospettare chi in realtà fosse, fuggì. Certamente quella non poteva essere stata un’impresa fatta da un povero Brahmana.
Ci fu una grande festa per la morte di Baka e per la fine di quell’incubo. Grazie a Bhima, ora si poteva vivere serenamente.

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