Maha-bharata in Italiano, edizione 2022 – Parte 3

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Santanu e Bhishma
Il Re Santanu era il quarantasettesimo discendente della nobile stirpe di Kshatriya che provenivano da Brahma attraverso il Deva della luna, Chandra. Suo padre si chiamava Pratipa, ed era stato un grandissimo Re, amato dai sudditi per la sua saggezza e rettitudine. Santanu ricordava sempre un episodio raccontatogli dal padre quand’egli era ancora molto giovane.
“Un giorno mentre meditavo su Vivasvan,” gli aveva narrato Pratipa, “una ragazza sorse dalle acque del Gange e, con l’evidente desiderio di avermi come marito, si sedette sulla mia coscia destra. Io le dissi:
‘Cara ragazza, non sai che una donna non deve avvicinarsi a un uomo mentre questi sta meditando? Inoltre tu ti sei seduta sulla mia coscia destra, come di solito fanno le figlie o le nuore. Quindi io non posso accettarti come moglie, ma se lo desideri potrai diventare mia nuora.’
“Io so che quella ragazza tornerà e ti chiederà di sposarla. Non rifiutarla, ma se vuoi ottenere grandi meriti non domandarle mai la sua identità né cosa voglia realmente da te.”

Erano passati gli anni, e Pratipa era diventato anziano. Così si era ritirato nella foresta per spendere gli ultimi anni di vita nel servizio devozionale e nella meditazione.
Santanu aveva ereditato il trono del padre e governava con eguale rettitudine e capacità.
Ancora giovane, egli amava particolarmente le lunghe passeggiate sulle rive del Gange, da solo, assorto in uno stato mentale sereno e pacifico. Si sentiva soddisfatto perché il popolo, felice del suo modo di governare, rispettava le leggi e viveva pacificamente.
Un giorno, mentre camminava senza meta sulle rive del fiume sacro, vide una bellissima ragazza che, senza nessuno che la accompagnasse, gli veniva incontro guardandolo con insistenza. La situazione era alquanto insolita poiché il tramonto si stava apprestando e di solito a quell’ora le ragazze non andavano in giro sole. Lui si avvicinò.
“Cosa fai qui da sola?” le chiese con tono gentile. “Il giorno sta per terminare e il sole si è già nascosto dietro l’orizzonte. Tra poco sarà buio, ed è pericoloso per una ragazza andare in giro senza accompagnatori.”
Lei non rispondeva.
“Hai un aspetto soave e dolce,” riprese Santanu, “e la tua bellezza è irresistibile. Mi incuriosisci. Dimmi, chi sei e da dove vieni? Chi sono tuo marito e i tuoi genitori?”
“Non ho un marito, sono una ragazza nubile,” rispose lei, “e sto passeggiando per queste rive senza un motivo né una meta precisa. Per quanto riguarda il mio nome e la mia provenienza non voglio, per ora, rivelarli a nessuno. Tu, piuttosto, dimmi, chi sei? Dai vestiti che indossi sembri uno Kshatriya di nascita nobile.”
“Il mio nome è Santanu,” rispose lui, “e sono il Re di queste terre. Non importa se per ora non vuoi dirmi il tuo nome; sappi però che hai già conquistato il mio cuore e che ti vorrei al fianco come moglie.”
La ragazza sorrise. Il Re era un uomo giovane, affascinante e dall’aspetto fiero; anch’ella si sentiva attratta a lui.
“Come potrei rifiutare una simile occasione? Accetto senz’altro, ma ho necessità di porti delle condizioni.”
A quelle parole Santanu era già felice. Quella ragazza aveva una voce così gentile, quasi melodiosa, che addolciva il cuore. Si sentiva rapito da quella bellezza celestiale e pronto a qualsiasi cosa pur di averla con sé.
“Io sono Re di vasti territori e non ho difficoltà a soddisfare qualsiasi tuo desiderio. Dimmi cosa vuoi e lo avrai.”
La misteriosa ragazza disse:
“Non devi mai esigere di sapere il mio nome e la mia provenienza, e neanche obiettare né criticare qualsiasi cosa farò, anche quelle che sembreranno le più strane. Se accetti queste condizioni senza neanche sapere perché io le ponga, sarò felice di sposarti e venire a vivere con te. Ma se trasgredirai al patto me ne andrò immediatamente. Pensaci bene, dunque.”
Il Re era così preso da quella ragazza che non pensò neanche a cosa ciò potesse comportare e accettò qualsiasi condizione. Insieme andarono ad Hastinapura e pochi giorni dopo il matrimonio fu celebrato.

Passò più di un anno da quel giorno e fu un periodo di intensa lietezza e felicità. Il Re era felice e soddisfatto insieme alla sua amata regina.
Dopo poco più di un anno ella partorì un maschio, ma la contentezza fu soffocata da una tragedia inaspettata: fra lo stupore e l’orrore di tutti, la regina prese il neonato e lo gettò nel Gange, uccidendolo. Santanu, che aveva tanto aspettato il suo erede, era disperato, ma non poté dire niente, ricordando le condizioni poste: non doveva ostacolare né criticare la moglie, altrimenti questa l’avrebbe abbandonato. A parte quello che sembrò a tutti un momento di follia, per il resto era una donna eccezionale, amorevole, gentile, profondamente affezionata al marito e ai suoi doveri di moglie e di regina.
Poi nacque il secondo figlio, che seguì la stessa sorte del primo. E poi il terzo e il quarto. Santanu era disperato. Non riusciva a capire le ragioni di un comportamento del genere. Cosa la spingeva a uccidere i suoi figli? Ma aveva troppa paura di perderla per protestare.

Negli anni che seguirono, uccise sette dei suoi figli, tutti allo stesso modo, annegandoli nel fiume.
E arrivò l’ottava gravidanza. Quando il bimbo nacque, la regina lo prese e con calma agghiacciante si diresse verso il fiume, con l’evidente intenzione di affogare anche quel neonato. Ma Santanu non riuscì più a tollerare l’orrore che lo pervadeva.
“Ora basta,” le gridò. “Cosa fai? Che mostro sei? Perché uccidi i nostri figli? Io non capisco perché commetti questi crimini, ma ti impedirò di uccidere ancora.”
Tuttavia anche lui si rendeva conto che doveva esserci un mistero dietro quei comportamenti strani. Infatti la regina, nonostante la violenta sfuriata, non manifestò nessuna delle reazioni che una persona normale ha in tali circostanze. Non reagì in nessuna maniera, aveva solo l’aria triste, dispiaciuta.
“Mi dispiace di averti fatto soffrire,” disse lei con la solita voce suadente, “ma c’è una ragione a tutto questo. Credimi. Una volontà superiore a noi tutti mi ha forzata a uccidere i nostri figli.”
Si interruppe, guardandosi attorno.
“Ora dovrò andare via. Ricordi la condizione che ti posi? Se mi avessi contrariata io ti avrei lasciato. Anche ciò fa parte dei piani del destino, questa forza tante volte a noi incomprensibile. Io devo andare via, ora. Questo bambino, che chiamerò Devavrata, verrà via con me, e quando sarà cresciuto te lo riporterò e resterà con te.”
Santanu non voleva perderla, e sentiva dentro di sé un grande dolore, ma fu anche preso da una forte curiosità di sapere cosa aveva causato quei drammatici avvenimenti.
“Ma spiegami almeno cos’è successo. Perché ti sei comportata così? Perché hai ucciso i nostri figli? Cosa o chi ti ha forzata?”
“Io sono Ganga, la dea del fiume Gange,” rispose lei. “Questo grande fiume, santificato dalla testa del dio Shiva, che scende dai pianeti celesti e che continua a scorrere su questa terra, è mio.”
Santanu era sorpreso: sua moglie una dea? La dea del fiume Gange? Non poteva crederci.
“Se vuoi posso raccontarti cosa successe nella tua vita precedente e il motivo che mi ha indotta ad annegare i nostri figli.”
E iniziò a narrare.

“Nella vita precedente tu eri il Re terreno Mahabhishaka. Le tue qualità di virtù e saggezza erano tali che eri in grado di recarti in qualsiasi momento nei pianeti celesti e soffermarti a parlare e a tenere compagnia a Indra.
“Un giorno tu eri lì, insieme a grandi saggi e Deva di questo universo, quando mi notasti fra di loro. Fosti invaso da un irrefrenabile desiderio sessuale che, per quanto provassi, non riuscisti a controllare. Io mi accorsi di questo tuo sentimento e in cuor mio desiderai poterti contraccambiare.
“Purtroppo fra noi un’unione era impossibile, in quanto io ero una dea e tu un mortale; dunque il solo anelito che avevamo provato era già di per sé un atto peccaminoso. Brahma si accorse di ciò che stava accadendo e ci maledisse, dicendo:
‘Poiché siete caduti preda di un desiderio sessuale illecito, non siete degni di restare su questi pianeti; dunque nascerete sulla Terra, in quel mondo privo di colori e di reali bellezze. Vi sposerete e vivrete insieme per un certo periodo. Dopodiché vi lascerete e soffrirete molto per questa separazione. Che questa sia la vostra espiazione.’
“E così successe. Tu sei nato come figlio del Re Pratipa, e io ora sono qui con te, come una comune mortale.”
Santanu ascoltava. Naturalmente non ricordava nulla della sua vita precedente, in quanto gli uomini dimenticano tutto al momento della nascita; tuttavia qualcosa lo spingeva a credere a quella storia.
“Ma cosa c’entra tutto ciò con l’uccisione dei nostri figli?” le chiese.
Ganga riprese.
“Nella vita precedente questi bambini erano gli otto Vasu e si sono ritrovati a nascere come nostri figli per effetto di una condanna simile alla nostra. Ascolta; ti racconterò in breve cosa accadde.
“Un giorno essi stavano passeggiando con le mogli in una foresta del loro pianeta celeste, quando videro una stupenda mucca che apparteneva al saggio Vasishtha. Una delle donne ne fu così incantata che pregò il marito di prenderla per portarla nei loro giardini. Incapace di rifiutarsi, egli portò via con sé il pacifico animale.
“Quando il saggio tornò all’eremo, non trovò più la sua mucca, necessaria allo svolgimento dei sacrifici. Per un pò la cercò, poi in meditazione tornò indietro nel tempo, al momento in cui si era svolto il furto e, resosi conto dell’accaduto, lanciò una potente maledizione contro i Vasu.
‘Coloro che hanno rubato la mia mucca cadranno nel pianeta dei mortali, dove la vita è breve e colma di angosce.’
“In seguito, grazie all’intercessione di Brahma, Vasishtha modificò la maledizione in modo che solo colui che aveva preso la mucca sarebbe rimasto a lungo in questo mondo, mentre gli altri sarebbero nati e subito dopo ritornati nel loro pianeta d’origine.
“Quando gli otto Deva furono a conoscenza del loro destino, vennero da me e mi dissero:
‘Noi sappiamo che anche tu hai ricevuto una maledizione che ti impone di scendere nel sistema planetario mediano; dunque ti chiediamo di diventare nostra madre e di annegarci nelle acque del Gange subito dopo la nostra nascita, così da renderci possibile un immediato ritorno al nostro pianeta.’
“Promisi loro di farlo.
“I sette figli che ho ucciso sono coloro che non avevano partecipato direttamente al furto della mucca, mentre quest’ultimo, che io chiamerò Devavrata, è il vero colpevole. Egli vivrà a lungo su questa terra, e sarà un uomo glorioso e rispettato.
“Capisci ora,” concluse Ganga, “perché mi sono comportata in quella maniera? Avevo promesso ai Vasu di restituirli al loro mondo celeste.”
Ora tutto era chiaro; tuttavia, giacché l’appagamento della curiosità è in circostanze simili un magro palliativo, Santanu, placata la sete di sapere, si sentì ad un tratto infelice. Lei ora sarebbe dovuta andare via.
“Ti ho amato molto e vorrei restare con te, ma non posso. Ci rivedremo,” disse lei.
E scomparve.

Sedici anni dopo Ganga tornò e gli affidò il figlio, Devavrata, bello come un sole. Subito dopo il giovane fu nominato principe ereditario al trono e non trascorse molto tempo che a corte tutti si sentirono conquistati dai suoi modi amabili ed educati.

Santanu incontra la seconda moglie
A quei tempi, tra le classi sociali superiori, gli Kshatriya erano gli unici cui fosse permesso cacciare, ma solo determinate specie animali. Essi imparavano così ad uccidere per difendere i loro territori.
Un giorno, mentre Santanu inseguiva un cervo, sentì odore di fiori di foresta, talmente buono e intenso che non seppe resistervi. Deciso a portare via con sé quei fiori, seguì la scia fino al fiume, dove vide una donna impegnata a pulire una barca. Era lei che emanava quel profumo celestiale. Si avvicinò e con gentilezza le rivolse la parola.
“Ho sentito un meraviglioso profumo e l’ho seguito, ma certamente non mi aspettavo che provenisse da un ragazza. Chi sei tu?”
“Mi chiamo Satyavati e sono la figlia adottiva di un pescatore,” rispose lei, imbarazzata dalle occhiate di desiderio che il Re le lanciava.
“Sei bellissima,” le disse questi con irruenza. “Il tuo fascino mi ha stregato e vorrei averti con me. Io sono il Re Santanu, il signore della terra dei Bharata. Ti voglio come mia moglie. Vieni via con me.”
“Tu sai che non posso decidere da sola,” gli rispose Satyavati. “Chiedi a mio padre: io accetto la tua proposta, e se anche lui lo farà ti seguirò senza indugi.”
Condotto alla sua casa, Santanu chiese Satyavati in sposa e il pescatore ringraziò gli dei per la buona fortuna che era toccata alla figlia, ma chiese che fossero osservate certe condizioni.
“Questo matrimonio è una grande cosa per mia figlia,” disse, “ma voglio anche che i miei nipoti diventino Re dopo che avrai abbandonato il trono; se sei d’accordo su questa condizione, potrai averla come moglie.”
Santanu era esterrefatto.
“Tutto ciò è assurdo,” disse. “Tu sai benissimo che io ho già un figlio, Devavrata, che è il principe ereditario e non posso privarlo del suo diritto di nascita. Chiedimi ciò che vuoi: ricchezze, onori, ma non questo.”
Fu tutto inutile; il pescatore non voleva accettare nulla se non la promessa che i figli di Satyavati avrebbero regnato sul trono di Hastinapura. Santanu era innamorato di quella ragazza, ma non se la sentì di fare un torto simile al figlio, per cui tornò in città sconsolato, consapevole del fatto che mai avrebbe potuto dimenticare Satyavati.

Passarono alcune settimane; Devavrata si accorse che suo padre non era più felice e sereno come una volta e gliene chiese le ragioni. Santanu rispose evasivamente e non volle rivelare il suo segreto. Però ogni giorno che passava si chiudeva in sé stesso sempre di più e si rifiutava di parlarne con chiunque. Devavrata, preoccupato, cominciò a indagare finché, con un astuto raggiro, riuscì a convincere l’auriga, che aveva assistito alla scena, a raccontargli l’accaduto.
Risolto il mistero, il giorno stesso Devavrata andò a trovare il pescatore e tentò in ogni maniera di convincerlo a concedere la figlia in sposa a suo padre. Ma lo trovò irremovibile: era deciso a vedere i nipoti sul trono.
“Se è solo questo che vuoi,” gli disse il virtuoso principe, “sei già accontentato. Io non ambisco alle gioie e al potere di questo mondo e non ho difficoltà nel rinunciare al mio diritto di nascita in favore dei tuoi nipoti. Avrai ciò che vuoi, purché mio padre sia felice.”
“Sei un giovane dai principi morali grandi e solidi come le montagne,” convenne ammirato il pescatore, “e so che tu manterrai la promessa: ma tuttavia che dire dei tuoi figli? Chi mi dice che quando essi saranno arrivati all’età giusta non avanzeranno pretese al trono?”
“Io non voglio altro che sapere mio padre felice,” ribatté Devavrata con fermezza, “questo è il mio primo principio. Se hai timore che i miei figli un giorno potrebbero pretendere il trono dai tuoi nipoti, allora giuro che non mi sposerò: e che questo sia un voto che mai romperò in nessuna circostanza.”
Appena Devavrata ebbe pronunciato il voto di celibato perpetuo, dal cielo si udì risuonare una voce celestiale che diceva: “Bhishma, Bhishma,” che significa “colui che pronuncia un voto difficile e lo osserva.” Da quel giorno Devavrata fu chiamato Bhishma.
Santanu non fu affatto contento del giuramento fatto dal figlio, ma Devavrata gli fece capire che quella decisione si sarebbe rivelata un bene per entrambi. Riconoscente, il monarca benedisse il figlio a morire solo quando egli stesso lo avesse desiderato.
Così Santanu sposò Satyavati.

Nacquero due figli: il primo fu chiamato Citrangada, il secondo Vicitravirya.
Il tempo inesorabile spogliò di ogni cosa il grande e virtuoso Re Santanu, che morì quando Citrangada era ancora troppo giovane per governare. Bhishma, in attesa della maggiore età del fratellastro, assunse la guida dello stato.
Appena Citrangada ebbe raggiunta la maggiore età, ascese al trono, ma non governò a lungo: in un combattimento contro un Gandharva che aveva il suo stesso nome, fu sconfitto e cadde morto.
Suo fratello minore, Vicitravirya, era ancora troppo giovane, e così l’onere del governo ricadde di nuovo sulle spalle di Bhishma.

La storia di Amba
Quando Vicitravirya si fu apprestato alla maggiore età, Bhishma e Satyavati cominciarono a pensare a un suo eventuale matrimonio.
Vennero a conoscenza che le tre stupende e virtuose principesse di Kashi, Amba, Ambika e Ambalika avevano raggiunto l’età giusta per il matrimonio e che il Re, loro padre, aveva intenzione di considerare le proposte avanzate dai numerosi principi contendenti. A quei tempi le principesse usavano scegliere i loro sposi tra i più valorosi, e a questo fine venivano organizzati dei tornei chiamati svayamvara. Dopo averne ampiamente discusso con Satyavati, Bhishma decise di andare a Kashi al posto di Vicitravirya per conquistare le principesse.

Quando Bhishma entrò nell’arena della capitale di Kashi, stava per iniziare il torneo. Alla comparsa del famoso guerriero si levò un robusto mormorio di sorpresa.
“Che il figlio di Ganga sia stato avvinto dalla bellezza delle tre fanciulle e abbia deciso di abbandonare il suo voto di celibato? Non vediamo altra ragione per cui egli si trovi qui oggi,” dissero alcuni.
“Non c’è altra spiegazione per questo suo arrivo precipitoso e non annunciato a questo torneo, dove la sua maestria nell’uso delle armi gli aggiudicherà senz’altro la vittoria,” aggiunse qualcuno.
Ma altri ancora sembrarono intuire la verità.
“No, non ci crediamo. Bhishma non tradirebbe mai il voto fatto. Piuttosto egli vorrà ottenere le principesse per il giovane Vicitravirya, ancora troppo debole e inesperto per sperare in una vittoria contro cavalieri tanto valorosi.”
Certo è che l’arrivo del guerriero dalle origini divine aveva causato un certo stupore. Kashiraja gli offrì rispettosi saluti, fornendogli l’opportunità di spiegare a tutti il motivo della sua presenza. Sentite le sue vere ragioni, i pretendenti ne furono molto seccati, in quanto vedevano così svanire ogni probabilità di conquistare le bellissime principesse. L’ira si impadronì di molti di loro, che si allearono contro Bhishma, il quale, per nulla intimorito, onorò bene la sua fama di invincibile combattente, affrontando da solo centinaia di avversari.
Dopo aver sconfitto tutti i principi presenti, questi fece salire con la forza le principesse sul carro di guerra e le portò via con sé.
Intanto che il carro sfrecciava in direzione di Hastinapura, Amba, la primogenita, lo implorò di lasciarla, perché amava un principe di nome Shalva. Ma mentre ascoltava la ragazza, Bhishma vide in lontananza il carro di Shalva che si avvicinava di gran carriera; egli allora si fermò determinato a combattere contro chiunque lo osasse sfidare. Senza più ascoltare le implorazioni di Amba, Bhishma affrontò e sconfisse il valoroso principe, risparmiandogli tuttavia la vita.

Arrivarono ad Hastinapura.
Quando fu davanti a Vicitravirya, Amba disse:
“Nel momento in cui sono stata presa, io ho implorato Bhishma di non portarmi qui, perché non potrò mai amare nessun uomo all’infuori del principe Shalva. Ti chiedo dunque di lasciarmi libera.”
“Cara ragazza,” rispose il gentile Vicitravirya, “se il tuo cuore appartiene a qualcun altro e vuoi vivere con lui e non con me, sei libera di andare. Non mi unirei a una donna che non mi desidera.”
Amba ringraziò di cuore e, scortata dai soldati Kurava, andò da Shalva.
“Per tanto tempo,” gli disse appena fu arrivata, “abbiamo desiderato vivere insieme e amarci, e quando Bhishma allo svayamvara mi ha presa e mi ha trascinata sul suo carro avevo perso le speranze. Ma Vicitravirya mi ha lasciata libera. Ora possiamo sposarci.”
“Cara Amba,” rispose Shalva, “tu sai quanto ti abbia amata e puoi immaginare quanto mi costerà dirti ora queste parole: non mi sento di sposare una donna che mi ha visto sconfitto e umiliato in combattimento, anche se essere vinti da Bhishma non è un disonore. Mi dispiace, ma non posso accettarti.”
Amba tentò di convincerlo con ogni argomento, ma non vi riuscì.
Così, abbandonata dall’uomo che amava, tornò da Vicitravirya, chiedendogli protezione. Ma questi rifiutò.
“Non posso sposare una donna il cui cuore è appartenuto a un altro,” disse lui.
Amba era disperata. Che poteva fare, ora? Da chi andare? I normali sogni di una ragazza della sua età, di avere una famiglia, una casa e dei figli, erano stati distrutti. A quei tempi, infatti, nessuno avrebbe mai sposato una donna cui fosse accaduta una storia del genere. Infine le venne in mente colui che aveva causato le sue disgrazie.
Andò da Bhishma.
“Quando mi hai afferrata per il braccio,” disse la ragazza, “e mi hai intimato di salire sul carro, io ti ho pregato di lasciarmi libera, ti ho parlato del mio amore per Shalva e del fatto che non volevo sposare nessun altro, ma tu nella foga non mi hai ascoltata e così hai rovinato la mia vita. Che ne sarà di me? Nessuno mi vorrà più. Il tuo dovere è ora di riparare all’errore commesso: devi accettarmi come moglie e darmi ciò che hanno tutte le ragazze della mia età.”
“Tu sai del mio voto di celibato,” disse Bhishma irrigidendosi. “Io non posso sposarmi. Mi dispiace di tutto ciò che è successo, non era nelle mie intenzioni farti del male. Nel clamore della battaglia non ho sentito le tue parole, altrimenti non ti avrei portata via insieme alle tue sorelle. Perdonami, ma non so come rimediare all’errore commesso. Non posso sposarti. Non potrò mai rompere un voto preso con tanta solennità.”
Amba divenne furibonda. Lo pregò, lo minacciò, ma non ci fu nulla da fare: Bhishma era fermo nella sua decisione.
Così la sfortunata principessa uscì dalla sala pronunciando minacce contro di lui. E Amba prese a viaggiare, chiedendo ai più celebri e potenti Re dell’epoca di vendicarla, di sfidare e uccidere Bhishma per lei, ma non trovò nessuno che se la sentisse di affrontare l’invincibile figlio di Ganga. Solo Parasurama tentò di consolarla e persino si scontrò con Bhishma, ma alla fine dovette rinunciare al proposito: Bhishma era veramente troppo forte.
La sconfitta di Parasurama fu per Amba una delusione terribile. Persino questi non era riuscito a darle l’unica cosa che oramai voleva dalla vita, quella vita che per lei era diventata un inferno. Non solo nessuno aveva più voluto darle una famiglia, ma nessuno voleva o poteva procurarle la vendetta.
Decise, così, di ritirarsi nella foresta e divenire un’asceta.

Per molti anni affrontò severe austerità per propiziarsi il dio Subrahmanya, che alla fine le apparve affidandole una ghirlanda.
“Mia sfortunata ragazza, prendi questa corona di fiori; sappi che chiunque la indosserà diventerà il nemico giurato di Bhishma.”
Allora Amba riprese a viaggiare per i numerosi regni, ma la stessa cosa si ripeteva: nonostante la provenienza divina, nessuno voleva indossare la ghirlanda. Disperata e oramai privata di ogni speranza, Amba la appese a un chiodo fuori dalle porte della capitale del Re Drupada.
Poi tornò nella foresta e s’immolò in un grande fuoco.
Amba sarebbe poi rinata come Shikhandi, la figlia di Maharaja Drupada: lei stessa sarebbe diventata la nemica giurata di Bhishma e avrebbe fortemente concorso alla sua morte.

Vyasa genera tre figli
Vicitravirya visse felicemente con le sue regine, ma non a lungo: una malattia mortale lo colse giovanissimo.
Satyavati era disperata: aveva perso il marito e due figli in pochissimo tempo e per di più la prestigiosa razza dei Bharata rischiava di estinguersi. L’unico che potesse ripristinarla era Bhishma, ma per quanto lei tentasse di indurlo a generare figli con le mogli del fratellastro, egli rifiutava con vigore l’idea, ricordando alla matrigna il voto di brahmacarya. La situazione era seria: cosa si poteva fare? A quel punto, con molta titubanza, Satyavati rivelò a Bhishma un segreto.
“Credo che sia giunto il momento di confidarti una cosa del mio passato che ho sempre taciuto a tutti. Come sai, io sono nata da una Apsara, la quale dopo avermi partorito mi lasciò cadere nel fiume, dove venni ingoiata da un pesce. Il pescatore che mi ritrovò nel ventre dell’animale mi adottò. A quel tempo non avevo l’odore fragrante di ora, al contrario emanavo un insopportabile puzzo di pesce. Un giorno fui vista dal saggio Parashara, il quale fu attratto da me tanto che desiderò avere un figlio.
“Io non volevo, ma lui mi convinse, sostenendo che oltre a farmi riacquistare la verginità subito il parto, mi avrebbe anche impregnata di un gradevole odore di fiori di foresta. Così partorii un bambino al quale vennero dati i nomi di Krishna Dvaipayana e Vyasa; egli diventò il saggio glorioso che anche tu ben conosci.
“Ora,” continuò Satyavati, “secondo le regole vediche, in momenti di eccezionali frangenti, come quelli che stiamo affrontando, dei saggi particolarmente qualificati possono fecondare le regine allo scopo di ottenere prole di grande qualità. Questo è sicuramente il caso di Vyasa, che è senz’altro uno dei Rishi più austeri e spiritualmente avanzati, e inoltre fa parte della nostra stessa famiglia.”
Bhishma trovò che l’idea era buona e ne parlò con Ambika e Ambalika, le quali accettarono. Satyavati mandò dei messaggeri all’eremo del figlio, il quale, vista la grave circostanza, approvò la cosa.
Ma c’era un particolare che si sarebbe rivelato determinante: Vyasa era molto alto, aveva un portamento solenne, e il suo aspetto incuteva timore; per di più le dure austerità a cui si sottoponeva avevano reso il suo corpo davvero sgradevole alla vista. Così, quando durante la notte entrò nella stanza di Ambika, la donna scorgendolo in penombra sentì agghiacciarsi il sangue dal terrore e chiuse gli occhi.

Alle prime luci dell’alba Vyasa si recò da Satyavati.
“Tua nuora Ambika non è riuscita a sopportare la mia vista,” le disse il saggio, “e nel vedermi ha sbarrato gli occhi. Per questa ragione avrai un nipote molto forte, ma privo di vista sia materiale che spirituale.”

La notte seguente Vyasa entrò nelle stanze di Ambalika, che riuscì a tollerare più della sorella, ma non poté fare a meno di impallidire dalla paura.
“Questo tuo secondo nipote,” riferì poi Vyasa alla madre, “sarà un grande uomo, ma poiché nel vedermi la madre è impallidita, avrà una carnagione bianca come la luna, e non è destinato a vivere a lungo.”
Nel corso del tempo Ambika partorì un figlio maschio, cieco come era stato previsto da Vyasa, e fu chiamato Dhritarastra. Anche Ambalika partorì un maschio che fu chiamato Pandu.

Dopo la nascita dei nipoti, Satyavati chiamò ancora Vyasa.
“Figlio caro,” gli disse, “ti sono riconoscente per aver permesso alle due mogli di Vicitravirya di avere dei figli, evitando così l’estinzione di una delle discendenze più nobili di Bharata-varsha. Tuttavia Dhritarastra è cieco e non potrà governare normalmente, mentre Pandu, come hai tu stesso predetto, non vivrà a lungo. Dunque dà ancora figli alle due regine, cosicché il tutto non rischi di diventare vano.”
“Farò come tu mi chiedi,” rispose il sapiente, “ma sarà l’ultima volta, poiché le ingiunzioni vediche proibiscono che un tale atto possa ripetersi più di tre volte. Questa notte visiterò ancora Ambika.”
Avvertita da Satyavati, la regina sul momento accettò ma poi, ripensando al portamento imperioso e austero di Vyasa, fu pervasa dallo sgomento e si pentì di aver accettato tanto prontamente. Il solo pensiero di quell’imminente incontro le incuteva terrore. Così convinse un’amica, una delle sue attendenti, a farsi trovare nelle sue camere quella notte, sicura che nel buio non l’avrebbe riconosciuta.
Inaspettatamente alla ragazza la cosa non riuscì così difficile, anzi fu molto cordiale con il saggio, che le disse:
“Siccome tu non sei stata disturbata dal mio aspetto e hai pensato solo a far del bene, avrai un figlio grandissimo, che sarà un’incarnazione di Dharmaraja, il dio della giustizia.”
Nel corso del tempo nacque un bambino che fu chiamato Vidura.
E fu subito dopo quella nascita che Vyasa tornò nel suo eremo himalayano.

Il tempo trascorse.
I tre fanciulli crebbero amati da tutti, e in special modo dallo zio Bhishma, che li trattava come se fossero stati i suoi stessi figli.
Quando i principi raggiunsero l’età da matrimonio, Bhishma si preoccupò di trovare loro delle buone mogli. Dhritarastra sposò la casta Gandhari, figlia del Re Subala di Gandhara. Questa pia donna, appena venne a sapere che avrebbe avuto un marito cieco, non volle avere niente che non fosse anche in possesso del consorte e si mise una benda agli occhi, giurando di non toglierla mai più.
Nello stesso periodo il secondogenito Pandu sposò Madri, la figlia del Re di Madra.

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